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Madrid in piazza contro l’aborto, «ma senza “cultura della vita” rischiamo un’altra era Rajoy»

Centomila marciano contro le leggi di Sánchez, «ma nel 2009 erano un milione e mezzo. Tra loro, i Popolari che non avrebbero poi affossato quelle di Zapatero. Il PP oggi sbanca in Andalusia, ma di Ayuso ce n'è una sola». Intervista a Javier Ortega

Caterina Giojelli
04/07/2022 - 6:27
Esteri
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17 ottobre 2009: un milione e mezzo di persone si radunano da tutta la Spagna alla plaza de Cibeles di Madrid per manifestare contro la legge sull'aborto voluta da Zapatero
17 ottobre 2009: un milione e mezzo di persone si radunano da tutta la Spagna alla plaza de Cibeles di Madrid per manifestare contro la legge sull’aborto voluta da Zapatero (foto Ansa)

Madrid, 26 giugno, la Spagna in un’immagine. Ci sono più di centomila persone in marcia dalla rotonda di Bilbao a Plaza Colón. Centomila che hanno risposto alla chiamata di Neos, la nuova realtà pro vita animata dall’ex ministro del Partito Popolare Jaime Mayor Oreja e da María San Gil, ex presidente del PP basco. Non servono grandi didascalie: famiglie e liberi cittadini, insieme a 200 associazioni, chiedono il ritiro della nuova legge sull’aborto e manifestano contro quella sull’eutanasia propinatagli dal governo Sánchez – senza dibattito parlamentare e in piena pandemia – che in un anno ha già ucciso 172 persone. Nella stessa giornata un corteo di attivisti di sinistra, dalle femministe ai no global, dai Fridays for future a Extintion Rebellion (secondo la prefettura 2.200 persone, per gli organizzatori circa 30 mila), sfila a Madrid contro il vertice Nato: tra loro Enrique Santiago, leader del Pce e segretario di Stato per l’Agenda 2030 del governo di coalizione.

Un governo che ha fatto del laicismo una religione di Stato e per molti prossimo alla fine di una parabola discendente iniziata nel maggio del 2021, con la vittoria a mani basse della pasionaria dei Popolari Isabel Díaz Ayuso alle elezioni regionali della Comunidad autonoma di Madrid, proseguita a febbraio con la conferma del feudo popular in Castiglia e León e culminata la scorsa settimana con la vittoria schiacciante del Partito popolare nella rossa Andalusia, la regione più popolosa di Spagna e roccaforte inespugnata del Partito socialista per 36 anni. È qui che il PP è riuscito a raggiungere la maggioranza assoluta conquistando più del doppio dei 26 seggi ottenuti alle elezioni precedenti. «La conquista dell’Andalusia ha per molti osservatori spianato la strada ai Popolari alla Moncloa: nel 2023, a maggio, andranno alle urne i comuni di 13 regioni su 17; a novembre, se non ci saranno elezioni anticipate, ci aspettano le politiche. E i sondaggisti danno per scontata la maggioranza assoluta PP-Vox. Questo segnerà un ritorno, in piena secolarizzazione spagnola, di una sorta di culture war, il riscatto di battaglie valoriali, anche solo delle istanze condivise dal popolo che ha marciato per la vita? Io non lo do affatto per scontato. Sánchez ha realizzato il socialismo di Zapatero, e allo stesso modo si prepara a lasciare la Moncloa. La domanda è se con i Popolari di Alberto Núñez Feijóo rivivremo un’altra era Rajoy».

Javier Ortega, battagliero docente di Teoria e comunicazione dei segnali e direttore del Biometrics & Data Pattern Analytics Lab presso l’Universidad Autonoma di Madrid (istituto di cui è stato anche vicerettore) era in piazza con Neos il 26 giugno, ma quella piazza, spiega a Tempi, non si può comprendere senza compararla a un’altra piazza, un’altra immagine. Era l’autunno del 2009 e a radunarsi in plaza de Cibeles, sotto gli striscioni “Cada vida importa” (ogni vita conta), non c’erano centomila persone: ce ne erano un milione e mezzo. Marciavano contro il feroce disegno di legge sull’aborto presentato dal governo Zapatero al parlamento, una riforma che estendeva una sorta di diritto di libera scelta di interrompere la gravidanza fino alla 22esima settimana in caso di malformazioni del feto o di rischi fisici o “psicologici” per la madre. Un diritto pieno ed esteso anche alle minorenni tra i 16 e i 18 anni, senza il consenso dei genitori.

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Era l’11 ottobre 2009. C’erano già state, in primavera, manifestazioni da mezzo milione di partecipanti, ma la “marea umana” che incoronò Madrid capitale della vita non si era mai vista.

Erano arrivati da tutta la Spagna. Anche allora si trattava di famiglie, una marea di bambini, anziani, adolescenti: erano arrivati con aerei, treni, a bordo di oltre 700 autobus partiti da Alicante, dall’Andalusia, dalla Catalogna, convocati a Madrid dai movimenti per la vita, dalla Conferenza episcopale spagnola e soprattutto dal Partido Popular all’opposizione dei socialisti. Quel giorno, insieme dall’ex premier José Maria Aznar, alla segretaria del Partito Maria Dolores de Cospedal ed Esperanza Aguirre, la dama di ferro del Pp che governava la regione autonoma di Madrid, sfilarono tantissimi dirigenti ed esponenti del Partito Popolare. Ma quando, caduto il Psoe, si ritrovarono al governo, non fecero nulla per arginare otto anni di zapaterismo. Gli slogan urlati in piazza restarono lì. Rajoy non mosse un muscolo. Da qui alla nascita di Ciudadanos e di Vox, in cui trovarono casa molti cattolici delusi dai popolari, il passo è stato breve.

La “Spagna cattolica” prima della Ley Orgánica di Zapatero non era mai scesa in piazza contro l’aborto.

L’aborto era stato depenalizzato nel 1985 dal governo presieduto da Felipe González per soli tre casi: stupro, grave rischio per la madre e malformazione del feto. La Spagna usciva da 35 anni di franchismo e scontava una sorta di frustrazione sul fronte dei diritti rispetto ai paesi liberi europei. Non è stata certo una riforma “voluta” ma è stata sopportata dai cattolici: non ci fu un referendum né un dibattito politico sulla modifica del codice penale.

“Rajoy gioca a fare la Controriforma”, scrisse tuttavia El Pais dieci anni fa, attribuendo al delfino di Aznar la volontà di smantellare le iniziative zapateriane: aborto, ma anche matrimonio e adozioni gay, scuola concertada sotto il controllo di commissioni statali…

Quando Aznar scelse il suo successore fra tre candidati con il “dedazo”, puntò l’indice su Mariano Rajoy. Non scelse Jaime Mayor Oreja, il cristiano tutto d’un pezzo di San Sebastian perseguitato dall’Eta e capace di un parlare fedele all’evangelico “sì, sì”, “no, no”. Aznar scelse il leale e dimesso Mariano Rajoy che mai aveva osato contraddirlo. Si accorse in fretta che si trattava di un tecnocrate, che non avrebbe incendiato la Spagna con le campagne valoriali né rischiato di giocarsi la Moncloa come fece Aznar stesso con la guerra in Iraq e gli attentati del 2004. Non ha osato perdere consensi: dopo averla annunciata, Rajoy ha ritirato la riforma della legge sull’aborto, limitandosi a reintrodurre il consenso dei genitori tra i 16 e i 18 anni. Rajoy è un galiziano. Da noi si dice che i “gallegos” non sai mai se vanno o vengono, a domanda rispondono con una domanda. Come il presidente della Galizia e oggi leader del Pp Alberto Núñez Feijóo: stesso temperamento.

La nomina di Feijóo è però frutto di una sorta di guerra civile interna al Partito popolare, che si è conclusa con l’estromissione di Pablo Casado. E con i vertici del Pp coinvolti nell’assunzione di investigatori su mandato di Casado stesso al fine di colpire la sua “protetta” e compagna di militanza nell’“allevamento” di Aznar, Isabel Díaz Ayuso.

La popolarità di Díaz Ayuso era diventata di gran lunga superiore a quella di Casado. Lui voleva dimostrare che la vittoria da lei riportata a Madrid era replicabile in un’altra regione governata da Pp e Ciudadanos, dove non sarebbe servito il “carisma” della presidente e il suo ammiccare alla destra di Santiago Abascal. Si sbagliava: convocate le elezioni anticipate in Castiglia e León, i popolari si sono sono trovati senza maggioranza assoluta e costretti a negoziare con Vox. Eppure è proprio a Vox che Ayuso sta strappando seguaci. Lei libera, carismatica, senza pregiudizi né paura di dialogare con una destra da ricondurre all’interno del perimetro popolare: un profilo sicuramente più simile a quello del basco Abascal (e degli altrettanto baschi Jaime Mayor Oreja e María San Gil) e capace di una chiarezza che i colleghi di partito, benestanti cresciuti a pane e cosa pubblica, non possiedono. Ayuso non appartiene a una famiglia introdotta nel PP, non ha seguito le logiche partitocratiche. Quando ha iniziato, dalla sua aveva solo un’inesauribile passione per la politica e la libertà di dire le cose che pensa.

Croce e delizia del PP, Ayuso è diventata la spina nel fianco della sinistra socialista: abbassa le tasse, annuncia il ricorso alla Corte Suprema contro la riforma ultralaicista dell’istruzione di Sánchez, protegge la libertà di scelta dei genitori e la scuola concertada. Alla ley trans, legge sull’eutanasia, legge sull’aborto ha risposto con il più grande piano per la natalità d’Europa per aiutare le famiglie.

Ayuso è concreta, sa che la Spagna di Sánchez, come quella di Zapatero, è stata plasmata dagli slogan, sa bene che nel nostro paese i governi sono appesi alla comunicazione e all’interpretazione opposte dei fatti. Qui però si aprirebbe un tema enorme. Perché il relativismo e la secolarizzazione, in questo paese dalla profonda tradizione cattolica, hanno trovato terreno fertile in una sorta di moralismo sentimentale che permea tanta parte di società. Voi italiani avete una tradizione politica diversa, una capacità di mobilitazione data da una solida educazione culturale. In Spagna è difficile comprendere che l’aborto, l’eutanasia, lo smantellamento dell’obiezione di coscienza, non siano appena un tema di legge, giustizia o religione, ma che al fondo è sulla risposta a “cosa è vita” che si gioca la concezione culturale di un intero popolo. Questo, a mio avviso, spiega i numeri relativamente bassi dei partecipanti alla marcia della vita del 26 giugno: non ci sono solo centomila persone a Madrid o in tutta la Spagna contrarie all’aborto o che ritengono la riforma sull’aborto sia una bestialità.

Alla vigilia delle elezioni Pedro Sánchez aveva promesso la legalizzazione della morte assistita. Un anno fa la Spagna è diventata il primo Paese dell’Unione Europea a consentire non solo l’eutanasia ma anche il suicidio assistito. Nemmeno Belgio e Olanda si sono spinti a permettere e regolamentare con la legge l’aiuto a morire, ammesso solo in Svizzera, Canada e nello stato di Victoria, in Australia.

Il governo Sánchez, tutto slogan sui diritti e la memoria democratica, chiama progresso sociale abbattere i costi dell’invecchiamento: niente cure palliative o accompagnamento ma veleno e abbandono per chi soffre di malattie o ha perso il senso della vita. Speculare a quella sull’eutanasia, la riforma della legge sull’aborto tratta la gravidanza alla stregua di un problema di salute pubblica, una legge che torna a stabilire che tutte le ragazze di 16 e 17 anni potranno abortire senza dirlo ai genitori, senza pensarci (eliminati i tre giorni di riflessione obbligatori e solo chi ne farà richiesta potrà ricevere informazioni su cosa significa abortire), senza perdere tempo e denaro: i centri sanitari distribuiranno la pillola del giorno dopo gratuitamente, in tutti gli ospedali pubblici sarà possibile abortire. E chi farà obiezione di coscienza verrà “schedato” in appositi registri. Non bastava l’idea di introdurre nel codice penale da 3 mesi a un anno di detenzione per i gruppi di aiuto alla vita che distribuiscono informazioni o fanno banchetti in prossimità delle cliniche: dubitare dell’assolutismo dell’autodeterminazione, che ha già spianato la strada alla legge sull’eutanasia ma anche la Ley Trans (che consente ai maggiori di 16 anni di cambiare genere e sdogana il gender a scuola e nei testi scolastici – sono ancora basito da una vignetta in un testo per le elementari che mostra un gruppo di figure femminili con la didascalia “molte hanno la vagina, alcune hanno il pene”, e accanto, la stessa vignetta al maschile, “molti hanno il pene, alcuni la vagina”), in Spagna è peccato e reato, viola l’ortodossia di partito. E il dissenso si paga caro: con multe e detenzione. Si capisce, al di là di questioni di enorme rilevanza economica, l’avanzata dei Popolari in una Spagna governata da socialisti con l’ossessione dei diritti.

Secondo i socialisti non c’è nulla di tragico e immorale nello sbarazzarsi di un malato o di un bambino, ma nell’intralciarne l’uccisione sì. Quanto ha attecchito questa concezione in Spagna?

Preparando la marcia, Mayor Oreja ha ricordato che «l’abrogazione dell’aborto negli Stati Uniti mostra che il dibattito sulla cultura della vita non è affatto finito. Non siamo qui oggi in un dibattito sul passato, ma per aumentare la consapevolezza e prepararci al dibattito del futuro. Ogni vita conta». Ma senza “cultura della vita” rischiano di restare solo gli slogan. E quando restano gli slogan, lo abbiamo visto con i socialisti, le leggi sull’aborto e l’eutanasia, è destino di un paese avvicinarsi alla tomba.

Tags: AbortoEutanasiaIsabel Díaz AyusoPsoe-Podemosspagnatransgenderzapatero
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