

La Clat proponeva una terza via fra capitalismo privato e capitalismo di Stato (fino alla fine dei suoi giorni Marius ha usato questa espressione per definire il sistema politico-economico di paesi come Cuba e il Venezuela di Hugo Chavez), un modello di sviluppo ispirato alla dottrina sociale della Chiesa e al patrimonio del pensiero umanista cristiano, dove il primato andava al lavoro anziché al capitale, era esaltata la funzione sociale della proprietà privata, e l’educazione e la formazione dei lavoratori e delle masse popolari erano oggetto di grande attenzione e di grandi sforzi.
Figlio di un immigrato friulano e di una contadina uruguaiana, Luis Enrique Marius cominciò a dedicarsi al movimento operaio nel 1966, diventando in breve dirigente di Acciòn Sindical Uruguay. Arrestato e imprigionato, non divenne uno dei 174 desaparecidos della storia della dittatura militare in Uruguay grazie all’intervento del governo italiano e in particolare di Giulio Andreotti, che rese possibile il suo trasferimento permanente in Venezuela.
Qui Marius fu rieletto nell’ufficio politico della Clat ininterrottamente dal 1977 fino al 2004, quando, iniziata l’agonia della confederazione che si sarebbe estinta due anni dopo, decise di non ripresentarsi. Durante la sua lunga militanza fu vice segretario generale (il leader incontrastato dell’organizzazione era Emilio Maspero) e ricoprì molte cariche, ma soprattutto fu sempre direttore dell’Ilacde, l’Istituto latinoamericano di cooperazione e sviluppo che rappresentò allo stesso tempo il polmone finanziario delle iniziative di formazione della Clat e il suo “pensatoio”.
Marius era apprezzatissimo da san Giovanni Paolo II, che lo incontrò venti volte nel corso del suo pontificato e lo volle consulente del Pontificio Consiglio per i laici (1985-1995), uditore e relatore al Sinodo speciale sulla missione dei laici (1987) e relatore in occasione dell’atto centrale delle celebrazioni per il centenario della Rerum Novarum (1991). I vescovi latinoamericani non lo stimarono di meno: ne fecero un consulente permanente del Dipartimento Giustizia e solidarietà del Celam e membro dell’Osservatorio pastorale. Esaurita l’esperienza sindacale, non perse mai la speranza che un modello di sviluppo umano integrale, alternativo al socialismo e al capitalismo, fosse possibile in America Latina, e diede vita al Celadic, Centro latinoamericano per lo sviluppo, l’integrazione e la cooperazione, insieme a un gruppo di dirigenti sociali, imprenditori, politici, accademici, studiosi e tecnici di tutto il continente «che si sentono interpellati dalla sfida molteplice e radicale rappresentata dalla crescita irreversibile della miseria, della povertà e della marginalità sociale e culturale in tutta la regione latinoamericana». Attraverso di esso contava anche di resuscitare nei più la voglia di fare politica, perché, come disse in un’ultima intervista consapevole del discredito in cui essa era caduta, «l’azione politica è il contributo più alto che la persona può dare al bene comune, essa rappresenta l’impegno di una persona con la società di cui fa parte».
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