

Mercoledì tutti i giornali e siti internet d’informazione del mondo titolavano sul rinvio, d’altra parte ineluttabile, delle elezioni presidenziali in Libia previste per il 24 dicembre. Ma la notizia dal fronte libico che avrebbe dovuto tenere banco, almeno nei commenti, era quella del giorno prima, quando a Bengasi si erano incontrati il generale Khalifa Haftar, comandante dell’Esercito nazionale libico basato principalmente in Cirenaica che aveva tentato di prendere il potere a Tripoli con la forza nella primavera 2020, e gli ex membri del governo di Tripoli Ahmed Matig e Fathi Bashaga, espressione politica di alcune delle milizie di Misurata e riconducibili alla Fratellanza Musulmana libica.
Questo ravvicinamento fra nemici, che va avanti da più di un anno, è visto come fumo negli occhi da Turchia e Russia, che hanno sponsorizzato rispettivamente Tripoli-Misurata e Tobruk-Bengasi nei lunghi anni di conflitti intestini dopo il fallimento della transizione politica successiva alla morte di Muammar Gheddafi. E dovrebbe preoccupare anche l’Onu e i governi che alla Conferenza di Parigi del 13 novembre scorso avevano molto insistito sullo svolgimento delle elezioni presidenziali e politiche come strada maestra per la soluzione dell’interminabile crisi libica, perché si sta evidentemente formando una coalizione che, se il voto non la premierà o se i suoi candidati non saranno ammessi alla competizione, ricorrerà di nuovo alle armi (che hanno in buona parte taciuto per tutto il 2021) per mettere fine all’instabilità.
Che la legge elettorale licenziata in ottobre dal parlamento libico di transizione non avrebbe funzionato si era capito sin dalla Conferenza di Parigi, quando i partecipanti si erano resi conto che fra i libici non vi era accettazione unanime dei suoi contenuti, e che in Libia circolava già una petizione firmata da 25 sindaci e 40 deputati che chiedeva radicali modifiche. Fra i difetti del provvedimento c’era quello di non chiarire i rispettivi poteri dell’Alta Commissione elettorale nazionale (Acen) e delle corti di giustizia amministrativa per quanto riguardava l’ammissione dei candidati. Alle competenze dell’Alta Commissione, che aveva rigettato 25 delle 98 candidature presentate, si sono sovrapposte quelle di corti distrettuali e della corte d’appello di Tripoli, alle quali sono state presentate sia richieste di squalificare candidati che richieste di riammetterli.
Così Saif al-Islam Gheddafi è stato prima eliminato dalla corsa da una decisione della Commissione elettorale, poi riammesso dalla corte distrettuale di Sebha; il generale Haftar è stato squalificato in base a un ricorso contro di lui presentato alla corte di al-Zawiya, ma è stato riammesso dalla corte di appello di Tripoli. A causa dei ricorsi la lista dei candidati non è stata mai finalizzata, e di conseguenza a quattro giorni dal voto le schede elettorali coi nomi delle personalità in lizza non erano ancora state stampate e spedite ai seggi. La Commissione parlamentare incaricata della supervisione delle elezioni e l’Acen si sono trovate d’accordo – fatto raro nel panorama politico libico – che le elezioni presidenziali non potevano essere tenute alla data prevista; l’Acen ha proposto un rinvio di un mese, al 24 gennaio, ma verosimilmente ci vorrà più tempo per riordinare le cose.
Anche a livello multilaterale la situazione appariva compromessa sin dalla seconda metà di novembre: a Parigi la Francia, l’Egitto e il capo della missione Onu in Libia Jan Kubis avevano insistito che le elezioni dovevano tenersi alla data prevista, in conformità alle norme della legge elettorale approvata in ottobre dal parlamento libico; Italia e Regno Unito avevano obiettato che un più largo consenso fra le forze libiche appariva necessario, e il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres si era espresso nello stesso senso. Ne erano seguite le dimissioni di Kubis, che era in carica da meno di un anno, e la sua frettolosa sostituzione col suo predecessore, la diplomatica americana Stephanie Williams che nel 2020 era riuscita a dare vita al Forum per il dialogo politico libico di 75 rappresentanti, che hanno scelto i dirigenti delle attuali istituzioni di transizione.
Nel panorama che si è creato dopo gli ultimi avvenimenti, il primo ministro di transizione Abdulhamid Dbeibeh è visto come l’uomo della Turchia, Saif al-Islam l’esponente su cui ripone le sue speranze Mosca, delusa da Haftar, mentre la strana coalizione degli ex nemici giurati Haftar-Bashagha-Matig sarebbe sostenuta apertamente dall’Egitto e segretamente da Francia e Stati Uniti. Che cosa avrebbe spinto l’Egitto di Al-Sisi a stringere accordi con esponenti della Fratellanza Musulmana di Libia (che al Cairo è perseguitata come organizzazione terroristica) e Francia e Usa a giocare di nuovo su più tavoli contemporaneamente? La prospettiva di cacciare dalla Libia sia i turchi che i russi.
Foto Ansa
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