Tentar (un giudizio) non nuoce

La parola e la spada

Di Raffaele Cattaneo
28 Ottobre 2023
Gli equilibri mondiali creati nel 1945 a Yalta, non reggono più. La geopolitica del mondo è cambiata. Emergono nuovi protagonisti che rivendicano un ruolo sulla scena della storia
Un razzo lanciato dalla striscia di Gaza verso Israele, 7 ottobre 2023 (Ansa)
Un razzo lanciato dalla striscia di Gaza verso Israele, 7 ottobre 2023 (Ansa)

La settimana appena trascorsa, sono stato invitato dal presidente di Assolombarda Alessandro Spada a fare un intervento sulla situazione internazionale presso il loro Consiglio Generale, dove sedevano circa duecento tra i più importanti imprenditori industriali.

Una occasione significativa, che mi ha “costretto” a fare una riflessione approfondita e articolata su quello che sta accadendo nel mondo, cercando innanzitutto di capire più a fondo le dinamiche che sottendono i fatti eclatanti che vediamo in questi mesi: dalla guerra tra Israele e Palestina, al conflitto in Ucraina; dalla presa del Nagorno Karabakh, alla fuga precipitosa della Nato da Kabul, subito ripresa dai talebani; dagli 8 colpi di stato in Africa negli ultimi 3 anni, alla tratta di esseri umani, incluse le atrocità nei centri di detenzione dei migranti in Libia, che l’Occidente accetta senza dire nulla.

Quali sono le forze e i cambiamenti che stanno dietro questi avvenimenti? Cosa ci dicono? La prima cosa che emerge lampante è che gli equilibri mondiali creati nel 1945 a Yalta, non reggono più. La geopolitica del mondo è cambiata. Emergono nuovi protagonisti che rivendicano un ruolo sulla scena della storia: Cina, India, nuovi Brics, paesi arabi e dell’area Asean, vogliono incalzare e scalzare i vecchi protagonisti: Europa e Usa.

Questo fenomeno ha a che fare con dinamiche strutturali (i cambiamenti nella demografia, la disponibilità di risorse naturali e capitali, il grado di innovazione tecnologica) ma anche con dinamiche politiche.

In primis riguarda il confronto sempre più aspro tra democrazie (tra cui Europa, Usa, India, Giappone) e autocrazie (Russia, Cina, Turchia, Iran, Arabia Saudita, ecc.). Il fattore differenziale principale tra democrazie e autocrazie è il grado di libertà personale e sociale: libertà di pensiero e di espressione, ma anche libertà economica, religiosa e di impresa. Questi modelli non sono differenti solo da un punto di vista politico, ma hanno anche valori diversi e culture radicate alle loro spalle. Dunque non è solo la lotta di Putin contro Biden o la guerra economica far Usa e Cina. Israele ad esempio è l’unica democrazia circondata da regimi autocratici, in tutto il Medio Oriente. Il loro confronto è un punto delicato ed estremamente complesso, anche per il semplice fatto che le autocrazie rifiutano sì la democrazia e la libertà, ma si muovono più rapidamente dei sistemi liberali e in modo sempre più spregiudicato. Negli scontri che stiamo assistendo in queste settimane hanno ruolo decisivo.

Negli anni ’90 si era fatta strada in Occidente una convinzione: la possibilità di esportare la democrazia laddove le tirannie soffocavano i popoli. L’esperimento, visto a distanza di tempo, può dirsi fallito. Anche quando si è pensato che le armi fossero l’unica soluzione, come nella guerra del Golfo – o con le rivoluzioni locali – vedi le Primavere Arabe – il tentativo non ha funzionato. Il mondo occidentale, libero e democratico, è quindi costretto a confrontarsi con Paesi che rifiutano la democrazia e la rules of laws cioè lo stato di diritto e vogliono imporre nuovi equilibri internazionali in cui contino la loro visione e i propri interessi.

Ad esso si aggiunge la crisi del multilateralismo e il sostanziale ritiro degli Stati Uniti dal ruolo di “gendarme del mondo”. Lo scontro fra Paesi con visioni e interessi così diversi fa sì che anche gli organismi internazionali come l’Onu siano in grave difficoltà e non possano dare grande prova di sé nella loro missione di prevenire crisi e conflitti. Anche il ruolo degli Stati Uniti è mutato: “America First” è un segnale di questo cambiamento di strategia, della volontà di occuparsi innanzitutto dei problemi interni e di racchiudersi nella “fortezza Usa”, protetta da due oceani e circondata da due Paesi come Messico e Canada che oggi non costituiscono un problema. La fuga da Kabul del 15 agosto 2021 testimonia che non si trattava solo di uno slogan di Trump, bensì del riflesso di uno scenario politico globale. A complicare ancor più gli equilibri mondiali ci sono i conflitti che si stanno spostando nello spazio satellitare e nel cyber-spazio. Fattore che sta deviando l’interesse degli Usa verso il Pacifico, lasciando sola l’Europa.

Una Europa che, è bene ricordare, sta mostrando tutta la sua debolezza politica sullo scacchiere internazionale, anche perché non ha forza reale, non disponendo né di un esercito comune, come chiedeva già Alcide De Gasperi, né di una politica estera comune: non si sa neppure chi sia legittimato a parlare di politica estera in nome dell’Unione Europea e le liti di questi giorni sulla posizione da tenere nel conflitto arabo israeliano tra Ursula von der Leyen, Charles Michel e Joseph Borrell ne sono una tragicomica conferma.

Nonostante questo, le spese militari non sono venute meno, anzi proprio il contrario: con l’aumento delle tensioni sono aumentate anche le spese militari. Il 2022 è stato un anno da record per la spesa in armi dei governi di tutto il mondo: 2.240 miliardi di dollari, pari a un aumento del 3,7% in termini reali rispetto all’anno precedente. E non è solo la guerra in Ucraina ad averlo determinato. Possiamo, a ragion veduta, parlare di una tendenza di lungo termine, che dalla fine della Guerra Fredda ha fatto segnare un +35%, ad oggi, della spesa militare. Gli Stati Uniti rappresentano il 40% della spesa totale, con quasi 900 miliardi di dollari. Anche la Cina, come avviene ormai da trent’anni, ha alzato il budget annuale, sfiorando i 300 miliardi. Al terzo posto la Russia, con 87 miliardi di dollari.

È purtroppo, un confronto infelice quello che emerge se paragoniamo la spesa miliare a quella per l’educazione. Il governo federale americano nel 2022 ha allocato per l’educazione solo 76 miliardi di dollari, meno di un decimo della spesa per armamenti, nonostante siano stati condotti degli studi che dimostrino che per ogni milione di dollari spesi negli Stati uniti in spesa militare, si sarebbero potuti ottenere più posti di lavoro investendo in altri settori. Primo su tutti l’educazione (178% dei posti di lavoro rispetto a quelli creati investendo in spesa militare). Ma anche in Paesi come l’Italia, dove la spesa per l’istruzione è gonfiata dalla massiccia presenza degli stipendi pubblici degli insegnanti, il fatto che essa pesi il 4% del Pil e le spese militari il 2% non è affatto un dato rassicurante, soprattutto considerando che nel mondo ci sono tanti Paesi emergenti in grado oggi di produrre istruzione e formazione per una classe dirigente del futuro (e in vari casi come l’India anche del presente, basta guardare i nomi dei top manager della Silicon Valley) quantitativamente e forse anche qualitativamente ben al di sopra della nostra, in particolare nei settori di maggior importanza economica e strategica a livello mondiale, come le discipline STEM (acronimo inglese di scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), l’ICT, ecc..

Se aggiungiamo a questi dati, il cosiddetto inverno demografico dell’occidente, rispetto a Paesi come l’Africa (secondo stime nel 2050 avrà quasi la metà dei bambini in età prescolare del mondo), è divenuto indispensabile porre l’attenzione sull’importanza di affrontare in futuro con più decisione il tema dell’educazione.

Napoleone Bonaparte, grande uomo “di spada” diceva che «nel mondo ci sono soltanto due forze, la spada e lo spirito. Alla lunga, la spada viene sempre vinta dallo spirito». Lo strumento dello spirito è la parola, cioè il confronto delle idee, unica vera alternativa alla violenza. Per questo gli uomini hanno inventato i Parlamenti e la Diplomazia, come luogo e strumento dove la parola e lo spirito possono comporre i conflitti al posto della spada e della violenza.

Il punto decisivo alla fine è sempre il medesimo: il capitale umano è la prima e più importante risorsa su cui investire! Altrimenti non rimane che “la spada”, ma come stiamo assistendo in questi giorni, se non intervengono “la parola” e “lo spirito”, essa può solo produrre barbarie e disumanità.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.