
Il Deserto dei Tartari
La Palombelli inneggia ai gay ma confonde amore ed egoismo
Mercoledì scorso, mentre mi godevo un po’ di ferie, ho letto sul Foglio l’articolo-rubrica con cui Barbara Palombelli (“L’Osservatrice Romana”, 20 luglio 2011, p. 2) è volata in soccorso di Umberto Veronesi, che qualche giorno prima se n’era uscito con una di quelle alzate di genio per le quali va famoso. «L’amore omosessuale», aveva detto il noto oncologo che a 86 anni continua a cercare di scandalizzare le persone di buon senso per divertirsi come quei bambini che godono nel riempirsi la bocca con le parolacce davanti ai grandi, «è più puro di quello eterosessuale, perché non ha secondi fini, è fine a se stesso, quindi è più autentico, più vero». Esprimendosi così l’ex ministro della Sanità di un governo Amato è finito nella terra di nessuno degli isolati, perché non ha potuto catalizzare il sostegno convinto dei progressisti, e ovviamente s’è attirato le critiche delle persone normali.
I primi, infatti, sono impegnati a imporre la loro visione del mondo relativista, entro la quale non è lecito asserire come assoluti valori e affermazioni; per loro dunque omosessuale ed eterosessuale pari sono, e tutto lo sforzo sia culturale che politico deve mirare ad affermare la perfetta uguaglianza valoriale dei due orientamenti; benchè filo-gay, per costoro il discorso di Veronesi è molto pericoloso, perché reintroduce una gerarchia di valori, un più e un meno, evoca la parola verità nella sua forma aggettivale (“più vero”). Da qui un imbarazzato silenzio.
Le persone normali (cioè quelle che riconoscono l’esistenza di norme che ci precedono) hanno giustamente obiettato che le cose stanno all’incontrario di quel che dice il signor dottore: un amore che non si ferma davanti alla possibilità di conseguenze che implicano grandi responsabilità è palesemente più vero, più autentico di un amore intrinsecamente scevro di certe conseguenze. Un rapporto sessuale completo fra un uomo e una donna senza l’interferenza di anticoncezionali è sempre un atto d’amore enormemente più vero di un rapporto sessuale completo omosessuale. Perché nel primo i due amanti si abbandonano alla passione che li attrae l’uno all’altra consapevoli che la conseguenza potrebbe essere qualcosa che li impegnerà per il resto della loro vita. Questo in un rapporto omosessuale non può mai accadere. Quelli che Veronesi chiama “secondi fini” sono in realtà la cartolina di tornasole della profondità dell’amore fra uomo e donna: «Sei disposta a venire a letto con me anche se magari fra nove mesi ti ritroverai fra le braccia un bebè e non sarai mai più libera come prima?», sottintende l’amante maschio che attira a sé l’amata femmina. E, in termini meno cogenti, la donna sottintende la stessa domanda nei confronti dell’uomo; il quale ha più possibilità di sfuggire le sue responsabilità, ma mai del tutto: gli eventuali figli rifiutati saranno fantasmi costantemente presenti nella sua mente.
Ma ecco che scende in campo Barbara Palombelli la quale dice che Veronesi ha ragione: gli omosessuali si amano più degli eterosessuali. Per dimostrarlo, prima propone una domanda la cui risposta lei ritiene scontata, ma che non sembra in realtà aver suscitato quella selva di mani alzate che si aspettava: («Chi di noi non ha invidiato, almeno una volta, la coppia di amiche/amici che sembrano più forti di noi etero?»); poi propone una decisiva esperienza personale: è andata al funerale di un amico omosessuale, e ha scoperto che gli omosessuali mostrano dolore e partecipazione in misura assolutamente superiore a quella dei funerali degli eterosessuali. «Lì ho capito il senso della frase di Veronesi», scrive. «Le lacrime e il dolore autentico della comunità gay per il fratello defunto avevano una forza speciale, una intensità rara». Con tutto il rispetto e la pietà per i defunti di ogni età e orientamento sessuale, ma anche – lo ammetto – con un po’ di inevitabile carognaggine, vorrei relativizzare le certezze esperienziali della Palombelli, o almeno ricollocarle in un contesto meno sentimentalistico.
Dunque consiglierei alla giornalista, se davvero vuole misurare l’intensità degli amori umani sulla base del lutto per i cari estinti, di frequentare i funerali di bambini, ragazzi e figli in genere. Dallo strazio delle madri e dei padri dedurrà facilmente, sulla base dell’unità di misura da lei proposta, che l’amore umano più intenso è quello che lega un genitore a un figlio, tanto maggiore quanto più il figlio è piccolino. Dunque la classifica dell’autenticità e della purezza degli amori umani, basata sull’intensità dei sentimenti nelle circostanze luttuose, è la seguente: al primo posto l’amore dei genitori per i figli, al secondo posto l’amore fra persone dello stesso sesso, al terzo posto quello fra persone di sesso diverso. Adesso voi penserete che io voglia concludere che gli eterosessuali superano in punteggio d’amore gli omosessuali quando diventano genitori, e creano le condizioni dell’amore più intenso che si conosca, e che quindi l’amore eterosessuale perde il primo tempo con l’amore omosessuale, ma lo supera e lo batte nel secondo tempo. E invece no.
Io faccio un discorso completamente diverso. Che comincia con la domanda: perché l’amore genitoriale è il più intenso di tutti? Perché una donna, per quanto ami suo marito, piangerà sempre di più all’eventuale funerale di suo figlio che non a quello di suo marito? E anche se quella donna dovesse “scoprirsi” lesbica e andare a vivere con una compagna, state certi che piangerebbe comunque sempre di più all’eventuale funerale del figlio che non a quello della compagna. Ma tutto questo che cosa ci dice? Che cosa indica? Indica che l’intensità sentimentale dell’amore, lungi dall’avere a che fare con questioni come la purezza e la verità intrinseca di quell’amore, è direttamente proporzionale al tasso d’identificazione dell’amante nei confronti dell’amato: quanto più l’amato è un riflesso, un prolungamento di noi stessi, tanto più la perdita ci strazia. L’esperienza della perdita di un figlio è, soprattutto per la madre, l’esperienza dello strazio delle proprie carni. È qualcosa di sé, qualcosa di profondamente posseduto che viene strappato via. Da qui l’intensità del dolore. Ora, la cosa da capire è che la stessa logica vale, in forma depotenziata, per l’amore omosessuale.
La Palombelli tende a dare una spiegazione sociologica, marxisteggiante: sarebbe l’esperienza della persecuzione e dell’emarginazione che modellerebbe i sentimenti di solidarietà degli omosessuali: «Chi intraprende un cammino difficile, accettando un’identità ancora piuttosto scomoda, diventa per sempre legato a tutti i suoi simili, forse perfino più che alla famiglia d’origine». Ma non è questa la ragione dell’intensità omosessuale maggiore di quella eterosessuale: la ragione sta nel narcisismo insito nell’orientamento omosessuale. L’omosessuale ama il simile a sé, l’eterosessuale ama il diverso da sé. Dunque nel primo caso l’identificazione fra amante ed amato è più accentuata che nel secondo. Più doloroso, di conseguenza, è il distacco: come nel caso del lutto genitoriale. Si ama di più ciò che più coincide con sé, e lo si piange di più in caso di perdita: ecco la ragione della classifica dell’amore in base all’unità di misura dello strazio funebre.
Questi tre tipi di lutti amorosi, così come si sono classificati, sono certamente umani, commoventi e rispettabilissimi. Ma non possono vantare una nobiltà intrinseca, e quindi non è possibile fare una classifica morale degli stessi. Sono, per dirla chiara, egoistici. La morte di un bambino commuove, ma non commuoverà mai come l’eventuale morte del proprio figlio. Il mio lutto genitoriale passerebbe dallo stato di naturale e rispettabile sentimento a quello di espressione di nobile virtù se io piangessi allo stesso modo la morte di tutti i figli di questo mondo. E ancora di più se piangessi allo stesso modo la morte di ogni essere umano che viene tolto al nostro mondo.
Tutto questo carognesco discorso per dimostrare l’insensatezza della pretesa di fare una classifica della purezza-autenticità-verità delle forme dell’amore umano sulla base dei sentimenti liberati in occasione delle cerimonie per i nostri cari estinti. Quella che viene fuori è semplicemente una classifica dell’intensità sentimentale, tanto più forte quanto maggiori sono i sentimenti di possesso e di identificazione preesistenti: massimi nel rapporto genitori-figli, molto forti all’interno del narcisismo omosessuale, forti ma mediamente meno intensi dei precedenti nel rapporto uomo-donna, dove la distanza fra i due soggetti è maggiore. Si tratta insomma di una classifica dell’egoismo. Per fare una classifica dell’amore, prima bisognerebbe chiarire che il vero amore è affermare l’altro, chiunque egli sia (cioè a prescindere dai legami di sangue e di convivenza); e poi che per affermare l’altro da sé occorre sapere chi egli è e a cosa è chiamato. E queste sono faccende di ben altro spessore.
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