L’umanissimo bisogno di fedeltà dietro al «dimmi che ami» di Michela Murgia
Michela Murgia sta correndo verso l’incontro che per ogni persona sulla terra è decisivo e sconcertante, misterioso e rivelatore. Guarda la fine, e questo rapporto incandescente con la propria mortalità amplifica nel presente un bisogno di esporre. C’è un’urgenza di venire al dunque, di ricapitolare la propria esistenza. Murgia spiega, s’interroga, pubblica contenuti, articola il suo lascito queer approfondendolo per se stessa e tessendolo in forma di testamento o auspicio di speranza universale per chi resta. A chi parla? Al suo pubblico? Alla sua famiglia allargata? A se stessa?
Il sentiero umano di Michela Murgia
In nessun caso lei definirebbe una confessione questa sua esplosione di contenuti e gesti, soprattutto se, come moltissimi, cadesse nel tranello di ridurre la confessione a un elenco di colpe. Al contrario. Murgia continua a stringere forte le redini della sua storia e delle proprie convinzioni, ogni sua esternazione nelle ultime settimane è una prova sotto sforzo. Eppure, proprio il succedersi incalzante di contenuti manifesta l’urgenza originaria dietro ogni confessione: abbiamo bisogno di mettere la nostra storia in mano a qualcuno, ed è ineludibile.
Sebbene l’impressione prevalente sia quella di una donna fiera che prende parola per rivendicare con entusiasmo la sua battaglia queer, sebbene il tono sia risoluto e argomentativo, proprio l’insistere nella scelta di una condivisione pubblica di questo suo capitolo di vita indica che lei stia facendo i conti con il verbo lasciare.
Michela Murgia ha molto chiaro quello che vuole lasciare in dote, eppure è un percorso di svelamento vulcanico e tutt’altro che pacificato. S’impegna a liberare la strada da massi ingombranti e vuole tenacemente dire che è possibile un sentiero in cui l’umano può gestire le relazioni affettive con le sue sole forze, la sua libertà e la sua volontà.
La riduzione delle promesse altissime a trappola
Il masso più fastidioso e ingombrante che ha incrociato di recente è il matrimonio, che lei stessa ha celebrato controvoglia in articulo mortis. Proprio in seguito al rito civile, Murgia ha condiviso su Instagram tre post intitolati “Queering the family”, ciascuno accompagnato da lunghe didascalie per abbattere le fondamenta della tradizione e ricostruire un suo regno queer di affetti.
Fedeltà, indissolubilità e fecondità. Questi i temi che prudono, scalpitano, sollecitano la sua inquietudine. Perché le risultano così scandalosi? Perché al cospetto dell’amore l’uomo è capace di promesse altissime, sa che nella realtà è capace di tradirle, ma non smette di desiderare per sé un sì all’altezza di quelle promesse. È difficile tenere insieme questa complessità, di fatto solo il Sacramento del matrimonio la custodisce e sostiene. Più facile è cancellare il male del tradimento, e sdoganare ogni condotta. Oppure attaccare quelle promesse altissime, ridurle a una trappola perfida.
Michela Murgia non solo le attacca, ma le disintegra. Scrive: «La fedeltà è l’altro nome del possesso, l’umore dove fermenta la tossina della gelosia, che inquina i sentimenti e struttura i rapporti di potere più dolorosi e squilibrati». Propone una via di liberazione: «La struttura dei rapporti queer rigetta la fedeltà e richiede l’affidabilità. Con chi vai a letto o di chi sei innamorato sono dati ininfluenti: la romanticizzazione e la sessualizzazione dei rapporti sono le armi con cui il binarismo patriarcale controlla la vita delle persone, specialmente delle donne». È difficile pensare che le sia sfuggito che fedeltà e affidabilità si reggono sul pilastro etimologico della fides.
Murgia punta il cannone contro la fecondità
Rispetto alla fedeltà, l’affidabilità allenta un po’ la presa. Il fedele resta, l’affidabile può andarsene e s’impegna a tornare al bisogno. Possiamo illuderci che ci sia un guadagno di libertà nelle relazioni, di fatto è solo un legame che si allenta e quindi rende meno pressante e scandalosa l’evidenza che proprio l’elemento della fides è così necessario a chi costruisce relazioni.
Allentare e dissolvere, dietro la morbidezza di questi gesti c’è il pericolo di una scomparsa. Diventa chiaro quando Michela Murgia punta il cannone contro la fecondità, intesa come procreazione naturale: «Il primo marcatore della queerness è la generazione di volontà, la capacità non di “ri-prodursi”, banalmente animalesca, ma di moltiplicarsi, un verbo che relega il sangue a una delle possibilità di essere e restare umani, ma non l’unica e forse alla fine neanche la migliore possibile». Cosa scompare sostituendo alla generazione quest’illusione di moltiplicazione? Scompare proprio il sangue, la carnalità della nascita relegata a una possibilità (neanche la migliore). Al suo posto: l’illusione di un generico aumento numerico attraverso la volontà, un assembramento elettivo.
Quel «dimmi che ami»
Ma non è possibile per l’essere umano creare relazioni in un ambiente fluido. La relazione impone la solidità di un argine, di un punto di riconoscimento reciproco che non sia vacillante, liquido, mutevole. E proprio nel suggerire un’alternativa al presunto inganno dell’indissolubilità del matrimonio tradizionale, Murgia si impatta con questa evidenza. Esprime la sua ideale promessa d’amore queer con queste parole: «Dimmi che ami quello che di me cambia di continuo e potrò continuare a darti quello che di me davvero non cambia: la voglia di sceglierti ogni giorno in modo differente, come diversa sono io ogni mattina quando apro gli occhi». Non è una celebrazione della fluidità reciproca, come vorrebbe essere. Dietro questa richiesta articolata non c’è forse il bisogno di fedeltà, di un sì che permanga dentro il tumulto dei cambiamenti?
Le parole possono fare dei giri immensi, ma poi ritornano. E tutto del mistero umano si gioca davvero sul campo di quel «dimmi che ami». A chi facciamo questa richiesta? A chi rivolgiamo questa preghiera? A chi mettiamo in mano la nostra storia? Tutto di noi sussiste nel bisogno di un abbraccio che – anziché allentare e dissolvere – stringa di più e ci offra una presa capace di mantenere le promesse e salvare i desideri più profondi.
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