Là dove c’era Bot ora c’è un Pir. Così sono cambiate le nostre abitudini
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Sarà quell’acronimo breve, che ricorda la sicurezza che fu dei Bot. Sarà che così tanti soldi sui conti correnti non c’erano mai rimasti così a lungo, e a furia di parlare di luce in fondo al tunnel, a parecchi è venuta la smania di non restare sulla banchina ad aspettare, mentre passa (?) il treno della ripresa. Sarà questo e molto altro, ma da qualche mese la parolina magica dell’economia italiana è diventata Pir. Una sigla che sta per Piani individuali di risparmio, strumento nuovo del risparmio gestito (il debutto è stato lo scorso primo gennaio) che in nove mesi hanno già fatto il botto: la previsione è per una raccolta di circa 10 miliardi di euro in soli dodici mesi, quando l’attesa prima del lancio era per lo stesso obiettivo ma da raggiungere in tre anni.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Promettono buoni rendimenti (almeno per i tempi in corso), sono “patriottici”, perché chiunque cerchi di piazzarli (a volte con onerose commissioni che azzerano il vantaggio dell’investimento esentasse) sottolinea come la raccolta sia destinata a finanziarie le piccole e medie imprese italiane. Sembrano “sicuri”, insomma, come un Bot dei bei tempi andati. Ma non è così. Perché i Pir sono pur sempre strumenti che scommettono sui corsi azionari, e quindi legati alla volatilità dei mercati molto più di quanto lo fossero i titoli di Stato. Sono pericolosi? Nemmeno, perché rispetto a buona parte delle alternative sono in effetti una strada ragionevole per investire i propri risparmi, cercando di farli fruttare.
Il punto è che l’italiano medio non ha quasi mai idea di cosa voglia veramente. Al primo appuntamento con il consulente finanziario, pretenderà di scoprire la formula magica che garantisca zero rischi e rendimenti alti. Che di per sé è un’equazione sbagliata in partenza. Si cerca la sicurezza di non perdere i risparmi, e si risparmia per ottenere un’altra sicurezza: avere da parte quel gruzzolo in grado di difenderci da ogni evenienza. Per anni ci siamo raccontati che noi italiani eravamo le brave formichine risparmiatrici, che il debito pubblico saliva alle stelle (colpa dei politici corrotti e anche nostra, che spostavamo il rischio individuale sulla collettività), ma che tra le quattro mura quanto a prudenza eravamo imbattibili. Quel debito privato tanto basso, rispetto alle medie internazionali, da riequilibrare una situazione patologica di dissesto contabile nazionale.
Dieci anni di crisi non sono però passati invano. Tutti gli studi concordano su un punto: risparmiamo meno di un tempo (perché i salari sono più bassi, l’occupazione più saltuaria e perché il consumismo qualche segno l’ha lasciato anche a queste latitudini) e risparmiamo diversamente. I disinvestimenti delle famiglie italiane, negli ultimi anni, hanno riguardato in principio soprattutto i titoli azionari, giudicati troppo instabili e rischiosi. E all’inizio ci si è rivolti alle banche, per ottenere strumenti garantiti: quelle obbligazioni, a volte senior molto più spesso subordinate, tristemente diventate popolari alla fine del 2015, quando la risoluzione delle cosiddette “quattro banche” (Etruria, Marche, Cariferrara e Carichieti) ha mostrato che non sempre era una buona idea affidarsi all’impiegato dello sportello sotto casa. Scartate anche le obbligazioni bancarie (ed escluso il ritorno ai titoli di Stato, oggi in pancia quasi solo alla Bce e alle banche “di sistema”, con i loro rendimenti negativi), la corsa alla sicurezza si è spostata agli strumenti liquidi e al risparmio gestito. In otto anni la quota di portafoglio degli investitori italiani riservata ai depositi bancari e postali è salita dal 38 al 52 per cento, per esempio. E ora la smania dei Pir riflette la voglia di provare strade nuove per non congelare il risparmio.
La quota di chi si affida a un professionista è però piuttosto contenuta: il 10 per cento del totale, secondo la Consob, contro il 38 per cento che per scegliere come investire chiede consiglio a parenti e colleghi e il 24 per cento che fa di testa sua. L’investitore medio ha un’istruzione medio-alta, vive al Nord, è maschio e spesso sopravvaluta le proprie competenze finanziarie. Nelle famiglie è lui a dare l’indirizzo per l’impiego delle risorse a medio-lungo termine, mentre la quadratura del bilancio a breve spetta quasi sempre alle donne. Il tratto generale è comunque quello di una scarsa preparazione finanziaria: che se da un lato espone a possibili rovesci (investimenti su titoli per sentito dire, scarsa o errata differenziazione del portafoglio, ecc.) dall’altro ha spinto parecchi alla prudenza. Perché essere somari in finanza magari ha portato parecchi a non far fruttare come avrebbero potuto i risparmi di una vita, ma in parecchi casi ha anche evitato di vederli svanire in un attimo.
Che cosa “muove” alla scelta
La sfiducia nel prossimo, legata a episodi che hanno messo in crisi il rapporto con figure un tempo di riferimento come il funzionario della propria banca, ha avviato la ricerca di nuovi interlocutori. Non necessariamente umani. Cresce il ricorso ai cosiddetti “roboadvisor”, dei sofisticati computer in grado di leggere le tendenze del mercato e dare consigli d’investimento, che rispetto al “vecchio” consulente hanno due vantaggi: danno l’impressione di essere infallibili e, soprattutto, costano molto meno.
Ma al di là di strumenti e interlocutori, restano i numeri a dire chi sono, e perché risparmiano gli italiani: secondo un’elaborazione di dati Istat, Prometeia e Centro Einaudi realizzata da Directafin, gli imprevisti riguardano il 48 per cento delle motivazioni, ma subito dopo nella lista delle priorità per mettere da parte qualcosa ci sono i figli (22,9 per cento), la vecchiaia (18,9) e la casa (9,2). Diceva sferzante Leo Longanesi che “tengo famiglia” avremmo dovuto scriverlo sul Tricolore, vero motto nazionale. A guardare i numeri del risparmio in Italia, c’è da dargli ancora oggi ragione.
Foto Shutterstock
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