La doppia violenza cinese: con i bastoni a Hong Kong, con i soldi in Occidente
Quando nel novembre 2019 ci mettemmo in testa di organizzare un incontro sulla situazione di Hong Kong (“La libertà è la mia patria”) dovemmo affrontare due diversi tipi di difficoltà, entrambe paradigmatiche dell’invasiva potenza cinese. La prima fu che il relatore che avevamo invitato a parlare in Italia, Albert Ho, avvocato, ex parlamentare, già presidente dell’Alleanza di Hong Kong, fu picchiato da sconosciuti qualche giorno prima di affrontare il viaggio. Un caso? Noi non lo crediamo.
La seconda difficoltà fu che, una volta che Lee Cheuk-yan, ex parlamentare e sindacalista, si rese disponibile a sostituire Ho per venire in Italia, avemmo più di un grattacapo per trovare un luogo dove ospitare l’incontro. Quando illustravamo i nostri intenti, venivamo cordialmente respinti e, ufficiosamente, ci veniva spiegato che «non fosse il caso» far irritare i rappresentanti del potere cinese a Milano. Alla fine, come sapete, grazie alla disponibilità del Pime e di alcune scuole, riuscimmo a organizzare i convegni che furono un successo di pubblico – soprattutto giovane –, arrivando a contare fino a 1.200 partecipanti.
Il nostro micro esempio racconta bene la “doppia violenza” cinese e di come essa si esprima in maniera differente in Oriente e in Occidente. Là con bastoni e i proiettili, qui senza muovere un dito e sparare un colpo.
Come spiega Rodolfo Casadei su queste pagine, fuori dai propri confini la Cina sa essere molto convincente, portando a compimento un’egemonia che non ha bisogno del manganello per farsi ubbidire, basta qualche tonnellata di renminbi. Basta infatti l’incoscienza (soprattutto europea) per farsi conquistare. Dalle mascherine protettive ai cellulari fino agli armamenti, già oggi dipendiamo dal regime comunista cinese. E sul verde di cui tanto ci riempiamo la bocca dalle nostre parti, ricordiamoci sempre cosa ci raccontò l’ingegnere Franco Bernardi: «Le fonti rinnovabili le paghiamo tutti, ma i benefici non sono di tutti. L’indotto industriale, ad esempio, arricchisce la Cina che ha in mano il 41 per cento della produzione di celle e moduli fotovoltaici, esportati in tutto il mondo».
Quando poi agisce nel giardino di casa il regime cinese diventa molto più sbrigativo. I nostri amici Albert Ho e Lee Cheuk-yan sono fra i nove condannati per aver organizzato una protesta, definita dal tribunale di Hong Kong «non autorizzata», nel 2019. Chi ha un po’ di memoria ricorderà la fiumana di gente che nell’agosto di quell’anno percorse le vie della città per chiedere il rispetto del principio “un paese, due sistemi” e per il ritiro della legge sull’estradizione. Si veniva da settimane di violenze e scontri e le autorità non si aspettavano di vedere scendere in piazza quasi due milioni di persone, un hongkonghese su quattro.
La manifestazione si svolse in maniera pacifica, gli organizzatori fecero in modo che i cittadini sfollasero tranquillamente da Victoria Park, non ci furono incidenti. Ed è proprio questa mansuetudine libera e convinta che il Potere, ad ogni latitudine e in ogni epoca, non può sopportare: tanto che i nostri nove sono stati condannati con la ridicola scusa di aver «intralciato il traffico cittadino».
In fondo, gliel’avevano promessa: in quei giorni, le autorità comuniste definirono i manifestanti dei «terroristi», squalificarono le proteste come «rivolte», insultarono gli organizzatori chiamandoli «merde di topo».
Mutatis mutandis, Hong Kong è oggi quel che fu Praga ai tempi della dissidenza di Charta 77. Non è un caso che nelle parole dei protagonisti tornino certe espressioni tipiche di Václav Havel. Ha detto in un’intervista Lee Cheuk-yan al nostro Leone Grotti: «Questa è persecuzione politica, il carcere è un destino ineluttabile ormai. L’unica cosa che ci rimane, l’unico modo di combattere è vivere nella verità e non nella paura. È quello che ha fatto la popolazione in Polonia e in altri paesi dell’Europa dell’Est. Oggi Hong Kong è nella stessa situazione di quei paesi prima del 1989».
Foto Ansa
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