Statua di Jefferson rimossa, cosa non capiscono quelli che «la cancel culture non esiste»

Di Piero Vietti
25 Novembre 2021
Il terzo presidente degli Stati Uniti e autore della Dichiarazione d'indipendenza censurato perché aveva degli schiavi. Si finge di colpire l'uomo per attaccare tutte le sue idee

Chissà se quelli che «la cancel culture non esiste» hanno visto il video della rimozione della statua di Thomas Jefferson, terzo presidente della storia degli Stati Uniti, dalla City Hall di New York.

Jefferson aveva degli schiavi

Un gesto simbolico – il monumento non è stato abbattuto come un busto di Cristoforo Colombo qualsiasi, ma spostato in un museo – ma con un messaggio chiaro: ciò che oggi è un peccato (nel caso di Jefferson, avere posseduto degli schiavi) danna chiunque lo abbia commesso, e non importa se al suo tempo il suo comportamento fosse normale, diffuso, accettato e secondo legge. La furia distruttrice e moralista che tanto piace a certo progressismo americano non perdona neppure uno dei firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stato Uniti, quella che recita che «tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità».

Jefferson aveva degli schiavi, non è stato all’altezza delle sue parole, lo sapeva e lo aveva anche scritto. La sua colpa è stata quella di essere stato un uomo del suo tempo, con i limiti che la società americana a cavallo tra 1700 e 1800 aveva, impossibili da giudicare e condannare con i parametri contemporanei. Ai nuovi vendicatori e sacerdoti woke, che vedono razzismo, sessismo e transfobia ovunque questo non interessa. In una lettera al consiglio comunale di New York del 2019, alcuni gruppi di elettori neri, ispanici e asiatici avevano denunciato «la base disgustosa e razzista su cui è stata fondata l’America», chiedendo la rimozione della statua.

Un ideale più grande delle sue contraddizioni

Ha scritto su Common Sense di Bari Weiss Samuel Goldman, professore alla George Washington University, che «la rimozione è vergognosa. A differenza dei monumenti ai leader confederati che li mostrano in piena gloria militare, Jefferson è raffigurato come uno scrittore. Una penna d’oca in una mano e la Dichiarazione di Indipendenza nell’altra, è chiaramente celebrato per aver composto un testo immortale in difesa della libertà e dell’uguaglianza. […] La rimozione della statua non è solo un attacco a Jefferson, però. Come ha detto lo storico di Princeton Sean Wilentz, “è un duro colpo, specialmente per i più vulnerabili tra noi, per i quali il grido di uguaglianza di Jefferson è l’ultima e più grande speranza”».

Il terzo presidente della storia degli Stati Uniti non è stato immortalato nel bronzo perché possessore di schiavi, ma perché portatore di un ideale molto più grande delle sue contraddizioni personali. «Mettere da parte queste figure storiche», prosegue Goldman, «per quanto problematiche possano essere, mette anche in secondo piano, o diminuisce, gli ideali che hanno incarnato e i molti americani che sentono un legame profondo e duraturo con loro».

Un attacco alle sue idee

Come per tutte le rivoluzioni violente, obiettivo della cancel culture è riscrivere la storia, i simboli, ribaltare i valori e plasmare la lingua. Con la scusa del razzismo si rendono inammissibili a qualunque celebrazione pubblica quasi tutte le figure importanti della storia americana prima del 1861. «Escluderli dal discorso pubblico non influisce solo sulla loro memoria personale. Rende senza parole anche gli altri americani, che hanno usato i loro nomi, le loro parole e le loro storie come simboli per la propria aspirazione alla giustizia. Ecco perché gli attacchi al Columbus Day sono fuori luogo quanto la rimozione della statua di Jefferson. La festa e i memoriali in molte città non riguardano davvero l’esploratore genovese che ha servito un re spagnolo. Sono conferme della presenza degli italoamericani nella vita pubblica, per non parlare del coraggio e dello spirito d’avventura che hanno portato alla scoperta del Nuovo Mondo».

Ecco perché, conclude Goldman, la domanda a chi ha voluto la rimozione di quella statua è: «Distruggendola, intendi attaccare l’uomo o il simbolo? Intendi attaccare il suo essere stato proprietario di schiavi o la sua lotta per una repubblica libera e democratica?». Quella di Jefferson non la prima statua a “cadere”, e non sarà l’ultima. «Ma il gesso e il bronzo di cui sono composti non è la cosa più importante. Ciò che conta è il destino delle idee in quella Dichiarazione nelle mani di Jefferson. Quelli che Lincoln descrisse come “una verità astratta, applicabile a tutti gli uomini e a tutti i tempi” e “un rimprovero e un ostacolo per gli stessi precursori della ricomparsa della tirannia e dell’oppressione”». Questo è in gioco, e siamo sicuri che chi abbatte statue, censura professori, minaccia scrittori ed esclude dal dibattito chi non ha certe idee lo faccia per tutelare quell’uguaglianza che Jefferson ha voluto difendere nella Dichiarazione d’indipendenza?

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