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Spiegare Gesù a Bambadinca. «Qui ci vorranno cent’anni prima che il cristianesimo diventi vita»

Il racconto di padre Dionisio Ferraro, missionario da quarant'anni in Guinea Bissau: «Se i cristiani festeggiano ancora il Natale devono ringraziare solo i musulmani. La cosa più difficile? Far capire che a Dio si può dare del "tu"»

Leone Grotti
02/01/2015 - 2:30
Chiesa
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Non sono stati tanti a celebrare la nascita di Gesù bambino a Bambadinca. E quei pochi che lo hanno fatto devono ringraziare i musulmani. I seicentomila abitanti di questo distretto della Guinea-Bissau sono ancora in prevalenza pagani e i missionari per andare a trovare le diverse comunità sparse per un territorio di 1.750 chilometri quadrati, più vasto della provincia di Varese, devono percorrere decine e decine di chilometri, attraversando due o tre fiumi (non dotati di ponte ovviamente).

Nel piccolo paese dell’Africa occidentale, dove l’energia elettrica non è ancora arrivata o è un lusso per pochissimi, la festa del Natale doveva essere abolita nel 1974, quando il Portogallo riconobbe alla sua prima colonia l’indipendenza. In parlamento i cristiani erano un gruppo minuscolo e quando durante una seduta il Natale venne definito una festa portoghese, cioè straniera e di conseguenza da abolire, nessuno osò ribattere. «Si vergognavano. Per nostra fortuna c’erano anche i musulmani, che si opposero all’abolizione affermando che il Natale è un dono di Dio per tutti, non solo per i cristiani. Noi abbiamo davvero goduto nel sentire queste cose». Padre Dionisio Ferraro nel 1974 si trovava già in Guinea-Bissau da diversi mesi, «dalle 4 di pomeriggio del 7 luglio 1973, per la precisione». Quest’anno ha festeggiato il quarantesimo anniversario della sua missione nell’ex colonia. Dopo aver servito diverse chiese del paese, tra i pagani e i musulmani, compresi 26 anni nella più importante parrocchia della capitale, da sei anni il missionario del Pime è di stanza a Bambadinca, dove niente è tanto incomprensibile quanto il Natale.

«In questi 40 anni – racconta a Tempi – tutti noi del Pime abbiamo cercato di stare vicini alla gente nella loro teologia o filosofia». Che si può riassumere così: «Dio è lontano, distante. Invece noi annunciamo a loro che Dio è Emmanuele, è vicino. Il Natale è l’emblema di questo ma per farlo capire le parole non bastano». Servono le opere. E padre Dionisio non si è mai risparmiato. I problemi della Guinea-Bissau sono gli stessi «degli altri paesi del terzo, ma io direi anche quarto mondo. Popoli che con l’indipendenza hanno ottenuto una bandiera ma anche povertà e miseria».

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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Scuola e sanità, oltre all’evangelizzazione, sono stati in questi anni i principali ambiti di lavoro del missionario. Padre Dionisio ha costruito diverse scuole e asili, oltre a un seminario. «Far funzionare qui una scuola, però, non è un’impresa facile: fino a poco tempo fa l’analfabetismo era al 90 per cento. Ora dicono che le cose sono migliorate ma non bisogna dare troppo credito alle statistiche. Mi ricordo di un ragazzo che dopo aver preso il diploma, non avendo niente da leggere, ha perso ogni interesse e quando è arrivato al matrimonio si era già dimenticato tutto».

Lottare contro la superstizione
La scuola però serve, soprattutto in una cultura pagana «dove Dio è distante ma ci sono tanti spiriti che fanno continuamente vivere il popolo nella paura. Senza catechesi e senza scuola, queste persone credono proprio a tutto». Così, ad esempio, «quando mi alzavo alle tre di mattina per fare il giro delle scuole e controllare i guardiani, la gente del posto si meravigliava che io riuscissi a muovermi perché, mi dicevano, alle tre le anime cambiano posto e dal cimitero si spostano in altri luoghi». Anche la superstizione è all’ordine del giorno: «Tante volte mi è capitato di incontrare uomini per strada, che vedendomi mi dicevano: “Mi ha rovinato la giornata, ora devo tornare indietro”».

In un paese dove «la venuta di Dio fra gli uomini interessa a tutti, perché quando ne parli stanno attenti e ascoltano», ma dove «ci vuole tempo per produrre i frutti di una presenza vera e liberatrice», la differenza si vede eccome. «Qui il valore della vita è molto basso. Quando qualcuno muore, la frase tipica è: “Non ci si può fare niente”. Non c’è l’idea della dignità umana, soprattutto quando si tratta di bambini: se uno di loro si ammala, con l’ospedale lontano anche 150 chilometri, si sta a vedere se guarisce. E se invece muore, si pensa che in fondo di bambini ce ne sono anche troppi. A volte non gli danno neanche le medicine, anche se il medico le prescrive».

Simile la mancanza di dignità in famiglia, dove le donne fanno tutto ma contano poco o nulla: «Nei villaggi pagani c’è ancora il matrimonio tradizionale con piccole poligamie: il marito con due o tre mogli. Rari casi in cui ha sette o otto spose. Sono le mogli che mantengono il marito: l’uomo costruisce e ripara la capanna, fa alcuni lavoretti in casa, mentre la moglie alleva, educa i figli e produce reddito, con l’agricoltura e piccoli manufatti. Certo, il marito deve dimostrare di essere capace, deve avere delle risaie. La donna invece sa che va a servire l’uomo e molte volte è lei che gli cerca nuove mogli, perché deve essere aiutata nei lavori da svolgere. Se vai a desinare in una di queste famiglie, mangi con gli uomini. Le donne devono andare via».

In 40 anni di missione, padre Dionisio ha visto tanti miglioramenti. I cristiani sono ormai il 15 per cento della popolazione e «dopo anni di catechesi e vita comune» rispettano anche le donne e i bambini. I preti locali da zero sono passati a 52, le suore sono 55. Su tre vescovi, due sono locali: «Entrambi miei alunni», afferma con soddisfazione. Poi aggiunge: «Qualche risultato c’è, però il processo è lento. L’Africa ha bisogno di una redenzione molto molto lunga». Le difficoltà sono di natura “tecnica” e spirituale: «La lingua è un problema. Nelle città si parla il criolo ma poi ogni tribù ha la sua lingua. Il portoghese, invece, non lo sa quasi nessuno. A scuola, in classe, i bambini si ammalano di continuo: prendono la malaria anche quattro volte l’anno. E pure lavorare è complesso perché quando muore qualcuno, ad esempio, le onoranze funebri possono durare anche una settimana e tutti si devono fermare».

Ma la cosa più difficile per padre Dionisio è insegnare a pregare: «Per me la difficoltà più grande, che ho sofferto a lungo, è insegnare che la preghiera è dialogo, insegnare che a Dio possiamo dare del “tu”. Per loro la distanza tra Dio e l’uomo è troppo grande per essere colmata. Fanno fatica ad entrare in amicizia con Dio e di conseguenza è difficile trovare amicizie vere tra di loro».

Eppure il presepe colpisce tutti
Eppure il Natale è sentito come qualcosa di speciale da tutti. «Nei villaggi convertiti facciamo sempre il presepe vivente con tutti. Le prove durano anche 15 giorni, tutti ci tengono moltissimo, e vedi che nei cuori delle persone entra una gioia immensa. Questa gioia loro la esternano attraverso danze e canti. Direi che loro alla fine sentono il Natale anche più di noi, però non sempre ne capiscono a pieno il significato, perché passata la sbornia della festa si ritorna alla vita dura di tutti i giorni. Prima che la dignità che noi abbiamo preso dal cristianesimo si trasformi in vita, ci vogliono tante generazioni». Forse troppe perché padre Dionisio, 70 anni, le veda: «I padri spiritani in Senegal dicono che i valori del cristianesimo vengono fuori alla quinta generazione, ci vogliono cioè cento anni. Noi in Guinea-Bissau siamo appena all’inizio».

Soprattutto in certi villaggi: «Siamo ancora alla prima fase: le visite, la costruzione di un pozzo, la collaborazione esterna. Ci vogliono dieci anni di rapporti prima di pensare di parlare del Natale. Con la scuola, qualcosa si comincia a celebrare ma all’inizio c’è solo amicizia umana e rispetto reciproco. Quando ti regalano una capra con un nastro rosso significa che ti considerano un amico, che fai parte del villaggio. Quando si diventa amici, allora si può anche annunciare che Dio è presente e venendo in mezzo a noi uomini, ci aiuta a spingere avanti la carretta tutti i giorni. All’inizio non riescono a capire, ma tutti sono curiosi».

@LeoneGrotti

Tags: africabambadincacristianesimoCristianidionisio ferraroevangelizzazioneFamigliaGuinea BissauindipendenzamissionariomissioniMusulmaninatalepaganipimepoligamiaportogallopreghiera
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