Il viaggio di Mario Luzi con Simone Martini
Il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini di Mario Luzi, pubblicato nel 1994 da Garzanti, non è, come ci si aspetterebbe, un poema narrativo, ma, secondo la definizione del critico Pietro Citati, una «libera suite di frammenti, un’architettura mentale […] scomponibile e ricomponibile», ciononostante, è possibile tracciare un abbozzo di trama. Luzi immagina che il famoso pittore senese, poco prima di morire nel 1344, compia un estremo viaggio nella propria terra natale in compagnia della moglie Giovanna, del fratello Donato, della di lui sposa e di un giovane studente di teologia, testimone e cronista della “carovana”. Il rimpatrio di Simone Martini, gravato dal “verdetto” della morte, si configura non tanto come un viaggio dettato dalla nostalgia, quanto come un ultimo traguardo conoscitivo, un risalire alle origini di se stessi e della propria arte.
Nel corso del poema si avvicendano le voci e i punti di vista dei personaggi: ora è il teologo a disquisire con sottigliezza della cosmogonia giovannea, ora è Simone a interrogarsi sul proprio mandato artistico, ora ci restringiamo alle dimensioni di un seme, ora assumiamo la smisurata prospettiva divina. Proprio Dio è uno delle presenze più ambigue e affascinanti del poema (ma sul termine “presenza” si potrebbe discutere). In apparenza è un Dio nascosto, conformemente alla tradizione tomistica, afflitto-umiliato dalla sete di assoluto degli uomini, dalla loro “mente segugia” che lo forza a manifestarsi e «non lo riconosce/in sé vivo da sempre», ma lo spacca in quattro come un proverbiale capello fino a ritrovarsi con in mano nulla. A meglio osservare, però, Dio è piuttosto un funambolo capace di entrare e uscire dalle quinte della sua inattingibile sede («Nella mente umana? O nell’universo?»), legato alle sue creature da un filo oscuramente fulgido, e qui l’ossimoro è de rigueur, di «imminenza e di assenza».
Ecco allora che in un altro componimento della prima sezione ad alta densità speculativa, intitolata Estudiant, Dio si fa largo nel creato in una gaia e luminosa epifania mattutina, perdendo il proprio rigido identikit ontologico e convertendosi nella brulicante molteplicità della vita. Nel gioco di nascondimenti tra Dio e il mondo non mancano momenti paradossali come nella poesia “Al centro d’una ed universa mente” (“mente” è parola chiave del poema e ricorre ossessivamente in tutta la sua estensione; essa è l’interfaccia tra Dio e l’uomo), dove la divinità, in forma analogicamente condensata di luce e canto, si riversa in una valle «piena dell’assenza degli uomini». Una volta tanto sembra l’esistenza umana a essere messa in dubbio nell’espandersi canoro della presenza di Dio.
Una delle sezioni più interessanti e compatte del poema, perché in essa l’identificazione tra Simone Martini e Mario Luzi diviene più stringente, è la sezione Lui, la sua arte. Della sua pittura Simone Martini si sente depositario, ma non possessore: la facoltà artistica gli è concessa temporaneamente e lui pone al suo servizio le proprie inesauste energie, le proprie “riserve di dolore”, ricavandone a propria volta scorte di “contemplazione” e “ardore”, altro mantra luziano tanto che Raboni aveva intitolato un profilo critico del poeta fiorentino Conoscenza per ardore. Luce e oscurità, bizzarramente affratellate, sembrano rimandare a una superiore unità dei colori percepiti dagli uomini: il buio che accomuna la materia, obliterando “il turchese ed il carminio”, e la luce che racchiude in potenza, come un bianco guscio d’uovo, tutte le sfumature. Compito della pittura e della poesia è, allora, cogliere il molteplice nell’unità e l’unità nel molteplice, conciliando le antinomie, prima fra tutte quella tra essere e divenire, tra il durevole e l’effimero. Luzi nel poema mette a frutto le esperienze poetiche precedenti, il dettato sensuale e araldico delle prime raccolte, l’intonazione prosastica di Nel Magma, la tensiva astrattezza dei poemi della maturità, e conia una lingua, al contempo, terrestre e celeste, concreta e rarefatta, che si sintonizza sugli infrasuoni dell’infima corporeità e, simultaneamente, capta gli ultrasuoni del divino, concertandoli in un’unica partitura di settenari ed endecasillabi variamente franta come una musicale risacca.
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