“Dio arriverà all’alba”, lo spettacolo che fa venire voglia di conversare con Alda Merini

Di Elisa Grimi
02 Aprile 2022
Impressioni su un’opera teatrale che è un autentico incontro con la poetessa dei Navigli. Con interviste all’autore e regista Antonio Nobili e alla protagonista Antonella Petrone
Una scena di Dio arriverà all’alba, spettacolo teatrale dedicato a Alda Merini
Una scena di Dio arriverà all’alba, spettacolo teatrale dedicato a Alda Merini

Il 19 e il 20 marzo è andato in scena al Teatro Oscar di Milano lo spettacolo Dio arriverà all’alba, omaggio ad Alda Merini, scritto e diretto da Antonio Nobili. Con un’interpretazione eccezionale ed incantevole, Antonella Petrone ha fatto totalmente sua la scena quanto il pensiero, la poetica e la musica presente tra le parole della poetessa dei Navigli. Lo spettacolo è ora prossimo a rivolgersi alla platea del Teatro Alfa di Torino (9-10 aprile) e a quella del Teatro Secci di Terni (24 aprile).

Una poesia che nello spettacolo Dio arriverà all’alba sorge su di un terreno assai concreto, tra i mozziconi di un posacenere, tra la polvere sui mobili e cianfrusaglie varie, sui tasti di un pianoforte di una casa popolare, quello che Alda amava suonare ascoltando il silenzio tra una nota e l’altra, uno spazio di sé riflesso nella sua poesia quale ponte tra l’essere che fa tutte le cose e l’interlocutore che trova la sua origine in quell’essere stesso. Un bell’intreccio – completamente metafisico – quello che la poetica della Merini offre tra mistero e realtà, silenzio ed essere, riso e pianto, gioia e dolore.

L’Alda Merini che Nobili porta sul palcoscenico è capricciosa, tagliente, divertente, ironica e simpatica con i suoi visitatori, piena di vizi, amante della tv color, della Coca-Cola, del caffè, del vino rosso – quello buono –, e dei tulipani, carnali e sensuali.

Ma all’Orfeo la presenza scenica della Petrone ha fatto la differenza, suscitando nel pubblico una simpatia immediata, imponendosi attraverso le parole e i silenzi di Alda all’animo dello spettatore, che desto, sulla soglia del palcoscenico, a spettacolo iniziato, avrebbe già da subito voluto varcarla per potere diventare un interlocutore diretto, reale, su quel medesimo palco, in quel medesimo mondo. Un mondo carnale, passionale, vero, sincero, onesto, che ricorda che al cuor non si comanda, che occorre ascoltarne la voce, come fosse un’anima bambina con cui Alda si trova la notte a dialogare tra burrasche, rancori, amori, pianti e silenzi.

E alla fine dello show, lo spettatore avverte estasiato di essere stato partecipe di un incontro, quello con una grande donna, con la quale è possibile varcare i confini e guardare l’orizzonte, portare la parola su su fino alle stelle, e giù giù fino al profondo del cuore, parlare di tutto, gioie e dolori, sconfitte, speranze e menzogne, contraddizioni incluse. E alla fine dello spettacolo, tra gli applausi che paiono non finire, sterminati quanto la radura in cui getta la poesia della Merini, tra la gioia e le lacrime lo spettatore sa di aver trovato una nuova amica, una compagna fedele con cui poter interloquire. Si esce dal teatro con la strana voglia già l’indomani, all’alba, di recarsi sotto la sua casa sui Navigli di Milano e in modo maldestro suonare il campanello, giusto a dirle un “grazie” per ritrovarsi così a conversare sulla vita tutta.

Dio arriverà all’alba rappresenta ad oggi una evocazione unica di un personaggio entrato nella Storia di questo paese.

* * *

Antonio Nobili: «Il segreto è lasciare che si rifletta in scena ciò che siamo fuori dalla scena»

Abbiamo voluto rivolgere qualche domanda ad Antonio Nobili, fine e talentuosa penna che ha permesso l’incanto di queste serate. Attore, drammaturgo, regista, definito l’enfant prodige del teatro italiano, ha debuttato in palcoscenico all’età di tredici anni e dal 2004 è tra i più apprezzati autori contemporanei.

Il testo dello spettacolo Dio arriverà all’alba è interamente ispirato alla poetica di Alda Merini. Come è nato? Che cosa ha suscitato in lei il desiderio di mettere in scena una rivisitazione della sua poetica?

Ho messo al centro della mia carriera teatrale le figure femminili e la narrazione del loro universo, così complesso, sotto molteplici aspetti. L’inizio fu con l’esplorazione del femminile nel corpus teatrale di Federico García Lorca, portando in scena le sue donne immortali. Ho poi vissuto un periodo più “commerciale” nella scrittura (un po’ per necessità, un po’ per impulso creativo) dedicandomi a grandi storie biografiche di gloriosi personaggi. Qualche anno fa, in occasione del decennale dalla scomparsa di Alda Merini e di richieste pervenute per uno spettacolo sulla sua vita (già di per sé spettacolare), ho avuto la possibilità di far incontrare i due affluenti principali della mia carriera in un unico mare che poi è Dio arriverà all’alba.

Il testo è per l’appunto una ispirazione… Ci sono dei passaggi che paiono essere delle poesie della Merini, ma solamente il cultore erudito non cade nel tranello. Per quale motivo non introdurre nel copione anche delle sue poesie?

Ho scritto un testo che celebra la Poesia presente in ciascuno di noi. Alda, in questo testo, non volevo fosse l’autrice delle note poesie ma una figura totemica, un Caronte verso il mondo del “di dentro”.

Lo spettacolo dura due ore ma trascorre più velocemente che se si guardasse un film atteso da tanto tempo in una sala cinematografica. Si ride, si piange, ci si commuove, pare di essere partecipi a propria volta sul palco. La comunicazione che si instaura tra attori e spettatori è pazzesca. Quale studio c’è dietro? Intuito, improvvisazione?

La compagnia e tutto lo staff tecnico sono formati da persone fantastiche e complesse. Ogni momento con loro, dai viaggi in tutta Italia agli allestimenti, è ricco di sfumature così divertenti e così poetiche che in scena siamo illuminati dal riflesso di ciò che siamo fuori dalla scena.
D’altronde come diceva Nietzsche: «Non si dà capolavoro all’arte se non si è fuori dall’arte dei capolavori».

Il testo è decisamente metafisico. Lei stesso congedandosi a conclusione con il pubblico ha ricordato un aspetto mistico che ha voluto conferire al testo, un messaggio di riscoperta di un Dio che si fa presente ogni giorno all’alba, quasi fosse una nuova possibilità per ciascuno, il regalo di un mondo nuovo ogni giorno. Che cosa l’ha ispirata? Ci può dire qualcosa in più sul significato dello spettacolo in particolare, e più in generale ciò che la porta a comunicare la sua arte?

Cesare Pavese insegna: «L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare sempre, ad ogni istante», ed è a lui e a queste parole che dovremmo ispirarci quando niente va come speriamo, quando tutto sembra perduto, quando ci smarriamo lungo la via. Cominciare è l’unica via di fuga per un nuovo inizio. «Di questo scrivo, questo è quello che racconto», come dice Alda in un momento dello spettacolo.

Quali sono le righe in corso sulla scrivania? Nuovi testi in arrivo? Dove la porta il suo interesse di drammaturgo e che cosa secondo lei è di responsabilità comunicare oggi nel mondo del teatro?

In questo momento la scrivania, come fosse la prua di una nave, vede davanti a sé un mare di possibilità senza però aver ancora una “terra” concreta su cui approdare. Non mi lascio certo trasportare dal vento, anzi sono sicuro di proseguire sulla linea della grande narrazione biografica su testo completamente originale, ma prima di individuare quale vita disegnerà la mia penna ho bisogno di capire come si sta muovendo la società, quale storia ha bisogno di sentirsi raccontare.

Senza stare ad appendere improvvisamente bandiere, come se la pace fosse uno slogan da rievocare e non fosse invece presente nei tormenti dell’animo umano dalla notte dei tempi, nel suo saluto finale lei ha collegato il tema della speranza a quello della pace. Qualche parola a proposito?

Sono convinto che dobbiamo perseguire una reale fratellanza tra esseri umani esercitata nel dialogo e nella fiducia reciproca. Il desiderio di pace è profondamente inscritto nel cuore dell’uomo e non dobbiamo rassegnarci a nulla che sia meno di questo.

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Antonella Petrone: «Interpretare Alda Merini è un discesa agli inferi del cuore, ma per risorgere con gioia»

Antonella Petrone, attrice protagonista dello spettacolo Dio arriverà all’alba, interpretazione eccezionale e incantevole quella del 19 e 20 marzo al Teatro Orfeo a Milano. Prima di occuparci però dello spettacolo, ci dica qualcosa di lei. Dove nasce la sua passione per il teatro? Che cosa le ha dato e le continua a dare?

La prima volta che sono salita su quelle tavole è stato durante una vacanza studio a Parigi. Ero in un collegio russo per praticare la lingua e, tra le varie attività didattiche, ci proposero di mettere in scena uno spettacolo in madrelingua russa con un regista rifugiato in Francia. Accettai con entusiasmo e mettemmo in scena Le Nozze di Cechov. Entrata in scena, la condivisione di emozioni che si creò con il pubblico mi rapì… divenne una assoluta dipendenza, della quale non sono più riuscita a fare a meno. Il teatro mi ha dato la possibilità di mettere a nudo la mia anima, indossando continuamente “armature” diverse. La possibilità di vivere infinite vite ed emozioni, a volte sconosciute, a volte condivise con l’esperienza del personaggio. Come reincarnarsi continuamente. Non meno importante la possibilità di vivere tutte le volte una catarsi collettiva.

Che cosa ha significato per lei interpretare Alda Merini? Che cosa evidenzierebbe di veramente unico nella sua personalità e nella sua poetica?

Fondamentalmente non si tratta di interpretare ma di “rispecchiarsi”. Ho cercato me stessa nella sua poetica, nella sua personalità, nei suoi bui, nella sua gioia. Ho dovuto indagare il mio buio e restituire la gioia che viene fuori da quel buio. La sua poesia porta negli inferi del cuore, ma risorge con gioia… In fondo non è né balsamo né antidoto, è una fiamma nel labirinto dell’anima. L’unicità della personalità e della poetica della Merini risiede nell’umanità, la fragilità, ma anche nella grande forza di resurrezione, che è indifferente all’apparenza della vita pubblica e del successo.

Oltre alle centinaia di sigarette accese – eh sì, la Merini era una gran fumatrice –, come tale esperienza l’ha cambiata, trasformata?

Beh, di sigarette ne fumo tantissime anch’io! Le sigarette ci hanno sicuramente accompagnate entrambe! In questa lunga tournée, mi sono sentita presa per mano attraverso solitudine, dolore, rabbia ma anche leggerezza, innamoramento, sessualità carnale; la mia immaginazione ne è uscita arricchita, rendendola ancora più visionaria, regalandomi una voglia mai esausta di vivere la vita. Il punto di instabilità e di stupore a cui ci precipita questa donna, pioniera dell’arte, personalità inarginabile: quello mi ha toccato, fino al filo di sangue, di estasi.

Un copione lungo, intenso, fatto di ironia, gioia, commozione, fino a monologhi interiori da brividi nel cuore dell’animo umano. Oggi raramente si trova una poetica, o ancora una letteratura, così schietta e impavida, che non si fa remore, cristallina nella sua narrazione verso lo spettatore. Quali sono i passaggi che le sono rimasti più cari?

Difficile dire quali siano i passaggi più cari, questo testo è talmente pregno di emozioni e vitalità, da vibrare ogni volta che salgo sul palcoscenico. È una testimonianza, racconto, descrizione di momenti, ricordi di infanzia, della madre di Alda Merini, donna bellissima e durissima, delle figlie o meglio il desiderio delle proprie bambine mai più ritrovate eppure attese per tutta la vita… Sicuramente il momento che più mi commuove è la rinuncia all’amore e il sacrificio del poeta, che nella sofferenza trova l’ispirazione… La scena finale: «A volte come si fa in acqua, avrei voluto reclinare la testa all’indietro fino ad un silenzio di occhi chiusi, dare il mio corpo al mare come sacrario, l’avrei spenta tante volte così la mia vita, se non fosse un battito involontario…», o ancora la necessità di preservare dalla violenza esterna un’anima ricca, contraddittoria e fragile… «Ho passato gran parte della mia vita ad inspessire questo corpo, come un guerriero che batte costantemente il suo scudo per renderlo più solido, più forte, io inspessivo il mio corpo come scudo per la mia anima…». Ce ne sono molti altri, ma riscriverei in questa sede tutto il testo!

Che cosa nel testo di Nobili ha trovato formidabile nella sua elaborazione, sia pensando al testo in sé, che a chi lo interpreta?

Il lavoro di Nobili è stato straordinario! È entrato talmente profondamente nella poetica della Merini da partorire un testo che sembra scritto dalla stessa poetessa. Intrecciare codici linguistici diversi è sempre stato nelle corde dei suoi adattamenti drammaturgici, che hanno pescato dalla letteratura e dalle canzoni ma anche da materiali storici. Sovrapporre linguaggi artistici, espressivi, documentaristici è dunque pratica ormai consolidata, ma trovare un completamento reciproco fra arti è sempre una sfida e una rischiosa avventura, in questo lavoro ben riuscita e capace di regalarci quadri intensi. Tra noi un lavoro di scambio, che lo ha portato a scrivere il testo durante il mio lavoro sul personaggio. A fine spettacolo restano due messaggi profondi impressi nell’esperienza: vita e coraggio. Questo spettacolo traccia quella qualità dell’animo che permette di affrontare pericoli e dolori, racconta di Merini e della sua dignità, di come la sua intima identità abbia rappresentato la sua salvezza ma le sia anche costata atroci sofferenze.

Ai tanti giovani alle prese con discipline umanistiche, dai più piccoli – penso a chi inizia per la prima volta a sfogliare romanzi e grandi classici – sino ai più grandi che di tali discipline pensano di fare una professione, quale suggerimento darebbe?

Il primo suggerimento è la curiosità. La curiosità è un atteggiamento di carattere esplorativo e di apertura, privo di pregiudizio. Permette di accrescere la conoscenza non solo del mondo e del rapporto con gli altri, ma anche di sé. Se tale curiosità viene poi indirizzata verso le discipline umanistiche, ci insegna che nulla è impossibile. Annulla i nostri limiti. Le possibilità si moltiplicano. Non esistono più lo strambo, il bizzarro, l’assurdo. Può succedere di tutto, in un libro come nella vita. Un buon libro può aiutarci a esplorare noi stessi, a trovare risposte ai nostri perché, a riconoscerci. Il lettore ha la possibilità di ampliare la propria esperienza esistenziale complessiva, di chiarirla e di arricchirla, di articolarla ed estenderla, acquisendo così nuovi strumenti per far fronte alle sfide della vita reale.

Perché il teatro è bello? Perché oggi fare teatro? Che cosa dà a chi lo fa e a chi lo vede e ascolta?

Il teatro è un modo per imparare a conoscere se stessi e poi conoscere il mondo con un’intensità e una verità differenti. Ci permette di fare i conti con le pulsioni che caratterizzano l’essere umano, con vizi, debolezze e ritrosie. La pratica del teatro è un’attività formativa fondamentale, poiché tende ad educare i giovani alla comunicazione, alla socializzazione e all’apprendimento delle nozioni riguardanti l’ambito artistico; merita di essere considerata un momento didattico importantissimo, multimediale, polivalente. Il teatro e l’arte hanno un valore unico e fondamentale nella società, perché creano quel distacco che allo stesso tempo unisce e rafforza il legame tra le persone, con la realtà, con le nostre idee ed i sogni, che in fin dei conti ognuno di noi ha nel proprio cassetto.

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