Il romanzo occidentale è morto. Il nuovo Melville sarà africano o cinese

Di Luigi Amicone
05 Agosto 2013
«Siamo poco interessati a storia, avventura, rischio. E questo crea adulti carenti quanto a dinamismo e responsabilità». Intervista al critico Alfonso Berardinelli

Ammettiamolo: almeno in Italia non è proprio una consuetudine dimettersi da un buon impiego statale per dedicarsi a un’attività “senza posto fisso”. Alfonso Berardinelli, classe 1943, romano, saggista e critico letterario, già docente di Storia della critica e di letteratura contemporanea in varie università italiane, lo ha fatto. Così, a partire dal lontano 1995, anno del “gran rifiuto” di un destino da professore universitario, si guadagna la famosa “pagnotta” come autore e libero professionista dell’impresa culturale italiana. Berardinelli è notoriamente tra le penne più originali e puntute del Foglio. Fra i suoi libri, come da cv fogliante, si segnalano L’esteta e il politico: sulla nuova e piccola borghesia (1986), L’eroe che pensa: disavventure dell’impegno (1997), Autoritratto italiano (1998), Stili dell’estremismo (2001), La forma del saggio (2002), Che noia la poesia (2006, con H. M. Enzensberger), Casi critici: dal postmoderno alla mutazione (2007), Poesia non poesia (2008). Dal suo più recente volume, (Non incoraggiate il romanzo, Marsilio, 2011), raccolta di articoli sulla narrativa italiana contemporanea, prende abbrivio la nostra conversazione.

Professore, lei scoraggia i romanzieri e nella presentazione al suo volume panoramico della narrativa italiana degli ultimi decenni dedicato a questo esercizio di dissuasione lei scrive che «la maggior parte dei romanzi che si pubblicano sono poco convincenti e non dimostrano nessuna memoria letteraria. Anche quando funzionano come trappole acchiappa-lettori, non provocano riflessioni e interpretazioni critiche impegnate, “non fanno storia”». Ma è il romanzo come genere che muore nella civiltà dell’intrattenimento totalizzante dei nuovi media o è il romanzo italiano che proprio non funziona?
Il mio pessimismo o scetticismo antiromanzesco in effetti parte soprattutto dall’Italia. Negli ultimi vent’anni saranno usciti almeno duemila nuovi titoli che di romanzo avevano quasi sempre poco più del nome. D’altra parte, forse di apprezzabile c’è stata una volontà, un progetto di apprendistato italiano al romanzo. Solo che i risultati somigliano per lo più a delle esercitazioni. Il fatto è che gli editori, terrorizzati dall’indifferenza dei lettori per ogni altro genere di libri, incoraggiano per ragioni commerciali la produzione romanzesca. I modelli che vengono seguiti sono prevalentemente, mi sembra, inglesi e americani, dato che in quelle tradizioni l’arte del romanzo non ha mai subìto gli attacchi distruttivi di avanguardie come quelle europee, nemiche della narrativa. Gli autori che hanno costruito libri notevoli sono pochi. È mancata quella decisiva combinazione di abilità, tecnica, ambizione e cose nuove da dire. In questo senso Walter Siti resta una delle poche eccezioni positive, ma in lui eccezionale è stato lo sforzo di autocostruzione. È un autore il cui primo risultato creativo è stato quello di creare se stesso come un vero e proprio autore di romanzi…

Sono testimone diretto di cosa abbia prodotto una narrativa per bambini sminuzzata in istruzioni per l’uso e divenuta paradigma ideologico-pedagogico per l’emancipazione etica del frugoletto e la conquista, come si dice, della “cittadinanza”. Ci sono scuole nel Regno dedicate ai “pedagoghi della cittadinanza” – i Mario Lodi, i Gianni Rodari – e credo nessuna al maestro Manzi, che con nostalgia ricordo, io bambino, nella Rai in bianco e nero degli anni Sessanta, a ipnotizzarci, noi figli di immigrati del sud al nord, con quelle sue lezioni alla lavagna dallo schermo televisivo. Per stare ai primi: uno dei miei figli un giorno torna a casa dopo l’ennesima mattinata alle elementari in compagnia delle avventure dell’uccellino Cipì e sbuffa «che noia questo Cipì! Parla parla, e non succede mai niente». “Non succede mai niente”. Bisognerebbe ricominciare a far “succedere qualcosa” nelle storie scritte per i piccoli?
Sì, bisognerebbe partire dall’infanzia. Gli anglosassoni hanno sempre prodotto una varia e ricca letteratura per ragazzi. I loro stessi classici, non è un caso, li abbiamo letti in versioni ridotte quando avevamo dai sei ai dodici anni. Defoe , Swift, Stevenson, Fenimore Cooper, eccetera. Quando mio figlio era bambino e poi anche adolescente ho cercato di fargli leggere (e ci sono riuscito) almeno una decina di questi grandi classici piuttosto che orientarli immediatamente verso la narrativa contemporanea. Continuo a trovare abbastanza assurdo che a un tredicenne si faccia leggere un libro sulla mafia senza avergli rivelato che esistono Twain e London. E qui concludo. Narrare è anzitutto narrare storie. Forse nel nostro paese siamo poco interessati alla storia e alla carriera morale dei singoli, all’avventura, al rischio, all’esplorazione personale del mondo… E questo come sappiamo crea individui adulti piuttosto carenti quanto a dinamismo e responsabilità… 

Nella dieta estiva di ogni studente, dalle elementari alle superiori, c’è, di solito, un bel programmino di letture consigliate dai professori. Sembra sia una buona tradizione. Lei cosa ne pensa?
Posso dire questo: consiglierei agli insegnanti di proporre sempre una ampia possibilità di scelta nelle letture extrascolastiche, facendo per esempio un elenco in cui ci siano autori sia italiani sia stranieri, recenti ma anche del primo Novecento, dell’Ottocento e anche precedenti. Poi se uno vuole dedicarsi al solito Calvino va bene…

L’odierna letteratura per bambini contiene anche la cosiddetta pedagogia dei “diritti”. La quale, spesso, privilegia la morale alla realtà. Ha da consigliare un minimo di autodifesa?
D’atra parte Manzoni è il nostro primo e maggiore romanziere, ha fondato il romanzo italiano e nonostante la genialità ha esattamente quel difetto di pedagogismo ideologico. Il romanzo convive male con una morale preordinata. Mi sembra che i veri modelli restino soprattutto russi: Tolstoj e Dostoevskij, ma anche Cechov, sono forse i più grandi moralisti della modernità e insieme narratori inarrivabili. Ma per loro la narrazione è la prima forma di studio morale, permette il giudizio, ma non lo presuppone.

Nei suoi goduriosi articoli per il Foglio lei esercita con finezza e perspicacia anche l’arte della stroncatura. Mi vengono in mente le tre più recenti dedicate a Emanuele Severino, padre Enzo Bianchi, Pierluigi Battista. Del primo mi pare lei abbia colto la ripetitività di un’unica idea. Del secondo che centinaia di benpensanti – molti dei quali piccandosi di essere agnostici e anticlericali – lo abbiano beatificato ancora in vita in un volume d’encomio che sarebbe risultato imbarazzante anche per Johann Sebastian Bach. Del terzo ha segnalato la contraddizione interna alla critica che fa agli intellettuali che non accettano il paradigma del “progresso”. Ma esiste un autore che loderebbe?
Ho una certa preferenza per la saggistica, ma non certo per quella che vive solo di concetti e di specialismi. La vera saggistica è prosa di pensiero soggettiva. Farei l’apologia di Pier Giorgio Bellocchio, autore piuttosto ignorato, che secondo me è il miglior saggista-narratore, anche il più tecnicamente audace e inventivo, di fine Novecento. Ne farei l’apologia perché in effetti è ancora da scoprire e mi meraviglia il fatto che con le vaste schiere di ricercatori che girano nelle università italiane nessun professore si sia ancora accorto di lui.

Globalizzazione è anche circolazione di messaggi, narrazioni e «relitti fonico-visivi che mi tengono compagnia» (profetico Morselli) alla velocità della luce. Un continuum in cui siamo immersi, volendo (poiché si può sempre “staccare la spina” come diceva Marshall McLuhan) ventiquattr’ore su ventiquattro. Comunque sia, anche quando stacchiamo, siamo impregnati di questa percezione di un mondo così finito e così insensato che ti si appiccica addosso la fatica di sentire la vita come avventura, dramma, mistero. Poiché tale rimane la vita. Anche se andiamo alle isole di Kerguelen con google map e diamo “l’amicizia” con un clic su Facebook. Ma insomma, date queste circostanze e condizione umana nel mondo, può succedere ancora un Melville?
Nella narrativa si può distinguere fra due tendenze o due talenti spesso contrapposti: gli autori che lavorano sullo stile e quelli che partono dalla mitopoiesi, cioè dall’invenzione di miti. Naturalmente nei più grandi autori succede che queste due dimensioni coesistano. Ma non c’è dubbio, per esempio, che Flaubert è soprattutto stile e Melville soprattutto mitopoiesi. Temo che in Occidente, soprattutto in Europa, la capacità di creare nuovi miti sia quasi estinta. Siamo società troppo organizzate e razionalizzate e crediamo di sapere troppo grazie all’ipertrofia della mentalità scientifica. Naturalmente anche dalla scienza, che non saprà mai tutto e si scontrerà sempre con qualche nuovo mistero, potranno nascere invenzioni mitiche. Ma tendo a credere che il nuovo Melville, il nuovo Cervantes, il nuovo Swift, sarà africano, o anche indiano, o magari cinese… L’epica in Europa è finita. Non solo siamo esausti. Ma crediamo che lo stile epico appartenga al passato. Preferiamo le interpretazioni e l’umorismo. Ma ora che ci penso c’è stata in secoli e millenni passati un’epica in cui anche la riflessione, la filosofia e l’umorismo avevano posto. Basti pensare a Dante e a Rabelais. 

@LuigiAmicone

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2 commenti

  1. mauro

    un articolo bellissimo! grazie luigi per questo…

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