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Il ministro Quagliariello e il difficile mestiere di riformare lo Stato nell’era di Twitter e dei sondaggi

Legge elettorale, aggiornamento della Costituzione, presidenzialismo. Intervista al ministro per le Riforme, che rivendica la ricerca del compromesso contro gli estremismi e l'antipolitica

Lodovico Festa
01/06/2013 - 8:46
Politica
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«Mi pare che la politica abbia intrapreso la via più razionale: cercare di realizzare il possibile, perché una sua parte aveva disperatamente cercato di realizzare l’impossibile». Il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello non ha dubbi sulla via che il governo delle larghe intese deve percorrere per riformare uno Stato in crisi.

Oggi anche un certo sentimento popolare propende a credere che si sia aperto uno spiraglio per riformare l’Italia all’altezza del momento assai difficile che stiamo vivendo. È vero?
Si è imboccato un percorso quando chi più poteva intralciarlo ha apertamente dimostrato la sua impotenza. E tutto è avvenuto grazie a scelte concrete su cui si può costruire: dalla rielezione di Napolitano alla formazione di un governo di unità nazionale guidato da una personalità preparata e politicamente intelligente.

La strada è in discesa?
La situazione è particolarmente complessa, ogni tornante nasconde un’insidia. Vi è un ampio fronte di forze che vogliono bloccare alla radice qualsiasi organica riforma dello Stato. Ogni occasione serve per cercare di far saltare tutto: si è visto sul tema della riforma elettorale che speriamo di avere incanalato su un terreno ragionevole suggerendo al Parlamento provvedimenti immediati (alcune modifiche chiave del sistema esistente) che non sostituiscano quelli più radicali legati a una vera riforma dello Stato, cui sono devoluti gli sforzi del governo.

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La riforma dello Stato è il vero orizzonte dell’esecutivo in carica?
Sono diversi i compiti che questo governo è chiamato ad assolvere: innanzitutto ridare fiato allo sviluppo e costruire così anche nuovi e rapidi sbocchi occupazionali. C’è poi, intimamente intrecciata alle questioni economiche, l’esigenza di riprendere peso politico in Europa. Detto questo però il presupposto che può consentire pure di assolvere a questi impegni è dato dalla riforma dello Stato che è anche il modo per riportare la dialettica politica alla normalità di una democrazia liberale: forte per l’aperta competizione delle idee ma anche per un sottostante sentimento unitario rispetto ai destini comuni della nazione.

Il cosiddetto tema della pacificazione?
Tocqueville ci ha insegnato come nella politica si muovano “grandi partiti” per raggiungere grandi finalità ideali e “piccoli partiti” impegnati a inseguire prevalentemente interessi. I primi tendono a presentare un’alternativa “di sistema” che implica la scomparsa dell’avversario; i secondi cercano alternative “nel sistema”, il che comporta la sistematica attenzione a compromessi e mediazioni. La buona politica punta a una sintesi tra ideali e interessi, lavorando perché le alternative si esprimano nel sistema. I venti anni di bipolarismo italiano post ’92, invece, sono stati segnati da una dialettica in cui una parte ha cercato, in convergenza anche con segmenti dello Stato, di annientare l’altra parte.

Forse rispetto ai dilemmi tocquevilliani, noi italiani abbiamo un problema in più: anche chi cercherebbe un’alternativa nel e non di sistema, si rende conto che un pezzo di sistema non funziona più.
Quel “saggio” di Meuccio Ruini avvertiva, mentre si concludevano i lavori della Costituente, come parte dei risultati raggiunti consistessero in un’intesa spesso brillante ma condizionata da una fase storica non priva di asprezze, che aveva visto iniziare i lavori per la Carta con un governo di unità nazionale espressione della Resistenza e li vedeva concludersi sotto il segno della Guerra fredda. Proprio questo clima storico fece sì, ricordava Ruini, che su nodi fondamentali (forma dello Stato, forma del governo e sistema bicamerale) si raggiungessero compromessi che si sarebbero dovuti quanto prima rivedere.

Nel suo libro Magistrati Luciano Violante ricorda come il clima della Guerra fredda segnò anche le scelte sull’ordinamento della magistratura.
Chiunque consideri i sistemi giudiziari delle altre grandi democrazie europee, si rende conto come una così forte autonomia e l’unità di tutta la magistratura, compresa l’inquirente, siano peculiarità italiane. I costituenti ne erano consapevoli e a ciò cercarono contrappesi nella previsione dell’immunità parlamentare e con la possibilità che il Parlamento decidesse amnistie a maggioranza semplice: correzioni pragmatiche agli squilibri sistemici del rapporto tra un ordinamento giudiziario superpotente e istituti della rappresentanza popolare iperparlamentaristici. Poi nel ’92, grazie all’ondata delle riforme movimentistiche, gli elementi di pragmatico riequilibrio furono eliminati. Non furono però nemmeno sfiorate le parallele anomalie dell’ordinamento giudiziario. E tutto ciò in un’epoca dove l’espansione della tendenza a produrre legislazione da parte della magistratura propende a liberare questa dal dovere di applicare la legge votata dal Parlamento. In tal modo, e suo malgrado, l’ordine giudiziario si configura sempre più come un corpo separato rispetto al circuito della sovranità popolare. Per riparare a questo vulnus dell’idea occidentale di democrazia, sono fiducioso sui contributi di equilibrio che potrà dare un ministro saggio come Anna Maria Cancellieri. Se posso osare un consiglio è quello di studiare con attenzione i materiali organizzati da Angelino Alfano come ministro della Giustizia che avevano prodotto un’attenzione certo critica ma rispettosa anche dell’opposizione.

Si accenna alle tare che il movimentismo (si è citato quello giustizialista del ’92) ispiratore di riforme costituzionali ha provocato nel tessuto istituzionale, mi pare che questa tendenza possa essere letta quasi in perfetta corrispondenza con il blocco di ogni riforma provocato dal subordinare i tentativi di riforma costituzionale agli equilibri quotidiani della politica come è avvenuto dall’ormai lontana commissione Bozzi in poi. Il “movimentismo” ha prodotto anche utili cambiamenti ma ha alimentato un disordine istituzionale di fondo, un politicismo appiattito sul quotidiano  ha indicato rischi e pericoli reali ma utilizzandoli per paralizzare qualsiasi scelta. Forse ha ragione Giovanni Sartori quando chiede oltre che volontà politica e di movimento anche adeguata cultura e “professionalità” nel mettere mano alla Costituzione.
Si consideri solo che cosa è diventato il sistema delle autonomie e il tentato federalismo di questi venti anni: ricorda molto la nave Concordia davanti all’isola del Giglio. S’inchina ai princìpi e sfracella sugli scogli. Inabissando l’impostata riforma del federalismo fiscale e i suoi elementi innovativi come i costi standard, si è proceduto poi su una via solo fiscale di risanamento dei conti dello Stato che ha inevitabilmente provocato recessione. Le generose intenzioni della riforma del titolo V hanno provocato un tale numero di conflitti da richiedere una provvidenziale ma anomala supplenza della Corte costituzionale. Le idee contrapposte che si inseguono (regioni più grandi, difesa dei comuni più piccoli, scomparsa delle province) in sé hanno tutte una loro giustificazione, ma nell’insieme provocano un collasso del governo concreto del territorio. Così i cinque sistemi italiani di voto, così la costante campagna elettorale che annulla le tregue necessarie per governare con un minimo di respiro.

Mi pare che la consapevolezza dei limiti raggiunti dal sistema istituzionale italiano abbia toccato settori della sinistra tradizionali baluardi del conservatorismo istituzionale e quelli che per evitare di pagare pegno, si affidavano puramente ai vari movimentismi.
Sì. Con l’esplodere dell’antipolitica, o si guida un serio movimento di riforme o la demagogia travolgerà tutto. Oggi si tagliano stipendi dei ministri e numero dei parlamentari: obiettivi che hanno motivazioni condivisibili se coordinati da una logica che si propone di restaurare l’autorevolezza e l’efficacia delle forme della politica. In caso contrario, se non c’è più alcun confine con la demagogia, perché 630 o 420 deputati e non solo 3? In fin dei conti “3” consentirebbero di rappresentare anche l’opposizione, collegati con il web possono interloquire con tutti i cittadini! Obiettivamente il costo sarebbe inferiore!

Insomma il massimo livello raggiunto dell’antiparlamentarismo antipolitico costringe anche i più onesti sostenitori della conservazione della Costituzione  ad affrontare i problemi in campo: finalmente si parte dalle questioni (come conciliare democrazia liberale ed efficacia del governo) invece che dalla ideologizzazione degli strumenti (proporzionalismo e parlamentarismo).
Sì, si passa all’analisi concreta dei problemi, senza scordarsi l’esigenza di professionalità nella riscrittura della Costituzione (da qui l’idea di un comitato di teorici e soprattutto di pratici del diritto che conoscono i limiti del sistema e possono per questo consigliare opportunamente il governo). Senza tabù e improvvisazioni si potranno compiere interventi concreti negli ambiti a suo tempo indicati da Meuccio Ruini. E le scelte saranno ispirate sempre dai princìpi ma anche dalla ricerca degli strumenti istituzionali più adeguati alla situazione e in particolare ai tempi. Da aperto conservatore la mia soluzione preferita sarebbe quella del “governo di gabinetto” illustrato da Walter Bagehot: dove i parlamentari davano indirizzi ispirati dalla loro coscienza personale (una democrazia liberale non prevede obbligo di mandato per il parlamentare) e da quella collettiva rappresentata dal partito. Poi gli elettori – nei lunghi cinque anni della legislatura – maturavano convincimenti meditati e confermavano o bocciavano i parlamentari che avevano sostenuto il governo. Come è possibile che funzioni questo metodo in una società percorsa da sondaggi, twitter, dal giudizio popolare che si fa immediato? Abbiamo visto l’effetto devastante che ha questa presa diretta di un’opinione pubblica che non ha tempo di maturare convinzioni argomentate quando la politica è debole, negli avvenimenti che hanno caratterizzato l’elezione alla presidenza della Repubblica qualche settimana fa. Solo un’imperscrutabile Provvidenza ha evitato guai di disgregazione più ampia portando a rieleggere Napolitano. Ora: se si deve tener conto delle “nuove condizioni” della politica e innestare nel sistema rappresentativo una maggiore dose di incidenza diretta dell’elettorato, presidenzialismo o semipresidenzialismo diventano non dico scelte obbligate ma opzioni da prendere seriamente in esame. In un paese per più di un verso meno dinamico del nostro, la Francia, l’adozione della soluzione gollista ha permesso di contenere le difficoltà economiche e soprattutto ha impedito che queste si combinassero con una crisi istituzionale. Tutto ciò ha funzionato anche senza uomini forti, con politici certamente sperimentati ma non eccezionalmente carismatici come Chirac, Sarkozy e soprattutto Hollande.

Riflettendo sulle sorti delle democrazie europee mi par di poter dire che, a parte il particolare caso tedesco che per la sua storia non può essere considerato paradigmatico, nelle altre realtà una salda figura di capo dello Stato (re o presidente direttamente eletto) è stata spesso quel baluardo della sovranità nazionale che il presidente Napolitano ha surrogato ma a cui la Costituzione non dà ruolo adeguato.
Certamente c’è della verità in questa considerazione, che peraltro riporta a un tema che fa da sfondo alla riforma del nostro Stato: quello dell’Europa. Il nuovo governo si è mosso bene anche su questo terreno con recuperato peso da parte del presidente del Consiglio nella Ue e con l’entusiasmo del ministro degli Esteri. Sono evidenti le questioni dettate dall’emergenza: garantire un qualche governo della moneta unica e l’avvio di politiche di sviluppo analoghe a quelle di altre grandi democrazie (dal Giappone agli Stati Uniti). Ma anche in questo caso c’è da meglio definire la prospettiva perché, per esempio, una prolungata disattenzione sul tema della sovranità nazionale, ben lungi dal trasferirla su scala continentale, l’ha fatta puramente evaporare con grave scapito dell’Italia e senza che la costruzione europea ne abbia tratto vantaggio. La sovranità infatti è una risorsa. Affrontata l’emergenza anche le forme dell’integrazione europea e del suo legame con le sovranità nazionali vanno analizzate laicamente, senza pensare che esistano formule magiche per integrare oltre venti stati, con lingue e tradizioni difformi. Tutto ciò senza dubitare nemmeno per un attimo che il contesto europeo e globale è lo scenario inevitabile nel quale anche le nostre scelte interne devono collocarsi.

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