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Lettere al direttore

Il funerale di un 18enne, la fede e il “fatto cristiano”

Fabio Cavallari - Emanuele Boffi
14/11/2022 - 9:39
Blog
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Nei giorni scorsi, soprattutto tramite i social, ha spopolato un articolo di Antonio Polito, “Ripensare il cristianesimo. E la sua forza ad un funerale di un 18enne”. Per un po’, come mi capita di fare quando mi accorgo che un “pezzo” viene ritwittato da molte persone, ho preso le distanze. Poi ho vinto le mie resistenze (è questo forse il frutto di un retaggio che mi porta a iscrivermi nelle estreme minoranze) e l’ho letto.

Non voglio apparire cinico o volutamente “bastiancontrario” anzi, sono contento che Polito abbia vissuto il sollievo della sofferenza assistendo ad un funerale di un giovane ragazzo, ma non trovo alcuna corrispondenza con la mia esperienza umana.

Polito scopre, proprio come un cresimando, che la resurrezione è l’essenza del cristianesimo. Parla del messaggio cristiano e di un gruppo di ragazzi che “prende” la comunione e allora diventa comunità, parla della necessità della promessa di una vita eterna.

Io sono di un’altra pasta probabilmente, io ho bisogno “qui e ora” di una presenza. Non mi affascinano più le promesse, ma la carne viva di chi incarna quel Mistero. Mi interessa la vita di chi su questa terra vive in Cristo. E non fa sconti neppure a lui.

Il messaggio di cui parla il giornalista del Corriere della Sera è paragonabile ad un’ideologia, a cui volgi le braccia per disperazione, perché non sei in grado di darti una spiegazione. Prendi quelle parole, che non sono una pacca sulle spalle, ma comunque una panacea per un “al di là” di cui tu non percepisci traccia tranne parole senza materia.

Non abbiamo bisogno di più cristianesimo, ma di uomini e donne che di quella resurrezione ne abbiano fatto il loro passo quotidiano, senza diventare preti, senza mistificazioni ma riconoscendo il Mistero.

Le lacrime e la disperazione non si alleviano con una promessa, ma vanno lasciate strabordare oltre il limite del dicibile, per lasciare spazio a quella domanda, laica e religiosa, sulla nostra vita che comprende inevitabilmente la morte, a qualsiasi età. Il rischio altrimenti è che di quei ragazzi che sono andati a prendere il “corpo di Cristo”, quel giorno del funerale, non ve ne rimarrà traccia.

Io ho visto gente disperata ai funerali, anche senza versare una lacrima. «Meno male che la vita è triste, se no sarebbe disperata», ha ricordato Gloria Amicone ai funerali di suo padre. «Ora possiamo chiedergli tutto», ripete oggi sua moglie, Annalena Valenti.

Ed io riesco a guardarli e a dare loro ascolto, a stare loro accanto, non per un “messaggio del cristianesimo” ma perché loro sono carne, acqua e sale, lacrime e sorrisi. Loro sono vita. Ed io, privo della grazia delle fede, mi sentivo e mi sento tutt’ora, “impastato” nell’amicizia con Luigi.

Questa è la differenza. Altrimenti sarei rimasto e rimarrei solamente un dannato.

Fabio Cavallari

Caro Fabio, penso che l’articolo di Polito apparso su Sette avesse uno spunto notevole. Partecipando al funerale di Francesco, figlio di due colleghi, falciato da un’auto impazzita mentre si trovava a bordo della strada, Polito scrive di essersi trovato dinnanzi a molte persone «annichilite», «disperate», con visi stravolti da una domanda: «Perché?», «Chi può averla vinta sulla nostra invincibile gioia di vivere?».

È una domanda ancestrale, che nasce dallo sgomento di chi si trova di fronte alla morte. Diceva don Luigi Giussani che questa è la domanda all’origine di ogni filosofia.

Polito scrive che il parroco che ha fatto l’omelia «è riuscito a rispondere a quella domanda. Non avrà soddisfatto tutti, naturalmente. “Bisogna aver fede per credere nella resurrezione di Francesco”. Per credere che quel sabato mattino ci stesse guardando dal Paradiso. E non tutti abbiamo questa fede. Non io, purtroppo».

Eppure, quella promessa insita nel cristianesimo, scrive il giornalista, «ha alleviato il peso del nostro cuore, ha asciugato le lacrime dei nostri occhi, credenti e non credenti».

Qui, per Polito, è il guaio. Il guaio di un «messaggio cristiano indebolito», dei «pochi preti che hanno il coraggio, davanti a una bara, di cercare un senso della morte». Conclusione: «In verità proprio il nostro tempo, così scristianizzato, dovrebbe essere il più adatto al messaggio cristiano. È nei deserti della secolarizzazione che abbiamo più bisogno della promessa della vita eterna». Perché la Chiesa non riesce più a trasmettere questo messaggio?, conclude.

E qui arriviamo al dunque perché anche io la “sento” più come te che come Polito. Non penso che la sua sia “ideologia”, ma una sorta di consolazione, qualcosa cui piacerebbe credere anche senza crederci fino in fondo (perché in qualcosa dobbiamo pur credere, e il vuoto e il non senso non sono sciolgono gli enigmi che si agitano nel petto).

Quel che fai tu – non credente al pari di Polito – è un passo in più rispetto a lui. Anziché lamentarti che ci siano pochi cristiani «con la faccia da salvati», come diceva Nietzsche, scrivi: io li vedo, ci sono, sono carne; ho bisogno di loro, non di una generica promessa cui aderire con riserva.

È giusto. Il cristianesimo è – come diceva sempre il nostro caro Gigi –  innanzitutto un “fatto”, una cosa che accade, adesso, attraverso delle persone. Quindi non solo commuove, ma muove. Consola perché c’è, non perché ci sarà. La fede ha molto più a che fare col seguire questo “fatto” che col “credere” così come è comunemente inteso (un misto di creduloneria irrazionale e rasserenante). Ai primi due è stato detto “vieni e vedi”, non “ripensa il cristianesimo e starai tranquillo”.

Tags: Friedrich NietzscheLuigi AmiconeLuigi Giussani
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