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I populisti non se andranno tanto presto

No, i populisti non li hanno creati la Brexit, Trump o le bufale antivaccini. A fomentarli sono proprio il disprezzo e la censura delle élite. Ecco perché agli “illuminati” non basterà la vittoria di Biden per sbarazzarsi di loro

Frank Furedi
13/12/2020 - 23:35
Magazine
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Festa a Londra per il Brexit Day, 31 gennaio 2020

Articolo tratto dal numero di dicembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

I leader politici mainstream e le élite culturali semplicemente non capiscono il populismo. Di questi tempi si ritrovano continuamente spiazzati dal fatto che le elezioni non vanno sempre nel modo pronosticato dai sondaggi. La Brexit non sarebbe dovuta succedere. Donald Trump non sarebbe dovuto essere eletto nel 2016 e la sua corsa per la Casa Bianca quest’anno è stata molto, molto più un testa a testa di quello che si aspettava la gente del New York Times, del Washington Post e negli avamposti dell’élite.

Una delle ragioni per cui i media mainstream e l’establishment politico non comprendono il populismo è che costoro parlano esclusivamente con persone come loro. Un’altra causa, ben più importante, della disconnessione tra, per esempio, l’establishment britannico favorevole al Remain e i sostenitori della Brexit è che milioni di persone sono restie a dar voce alle proprie opinioni, poiché temono di sentirsi rispondere che “questo non puoi dirlo”.

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Brown e la signora «fanatica»

L’autocensura è parecchio diffusa nel mondo anglosassone. Spesso la gente qui esita a esprimere modi di pensare che vanno controcorrente rispetto alla visione del mondo promossa dalla narrazione mediatica. Un episodio minore accaduto nel 2010 ha reso evidente il motivo per cui così tante persone preferiscono tenere le proprie idee per sé. Durante la campagna elettorale nel Regno Unito, una signora 65enne rivolse una domanda sull’immigrazione al leader del Partito laburista, Gordon Brown, e quest’ultimo fu casualmente intercettato dalla stampa mentre, nell’atto di andarsene, definiva quella donna «fanatica».

Quella donna fanatica, al pari dell’accostamento tra Brexit e xenofobia, è una costruzione dell’immagine che Brown e i suoi colleghi di élite si sono fatti della realtà. Benché il leader laburista in seguito si sia scusato pubblicamente per avere etichettato come fanatica quella signora, tutti compresero che nel mondo intollerante di Brown non c’era spazio per una discussione sull’immigrazione. In simili circostanze, non sorprende il fatto che l’autocensura – che per molti aspetti è più insidiosa della formale sorveglianza del linguaggio – abbia stretto una morsa d’acciaio su quasi ogni aspetto del dibattito pubblico. Un rapporto del think tank britannico Policy Exchange ha rilevato infatti che solo 4 sostenitori della Brexit su 10 si sentivano in grado di esprimere le proprie idee davanti ai compagni di università. Negli Stati Uniti, il gruppo che aveva la più alta propensione a mentire ai sondaggisti piuttosto che ammettere il proprio voto per Trump alle ultime elezioni era quello dei maschi bianchi laureati. Perché? Perché, essendo stati abituati a sentire i discorsi dell’élite su cosa si può e cosa non si può dire nelle loro università, costoro hanno tratto la conclusione che fosse più sicuro tenere la bocca chiusa riguardo alle loro intenzioni di voto.

Fascista chi non vota bene

L’autocensura è ampiamente praticata anche nei luoghi di lavoro, dove ci sono numerose norme a delimitare cosa si può e cosa non si può dire.

Il diffuso esercizio dell’autocensura è già di per sé una testimonianza dell’intolleranza delle nuove élite e dell’instaurazione, a opera loro, di un clima politico nel quale sostenere Trump è ritenuto un indicatore del fatto di essere dei fascisti, dei negazionisti del Covid o degli ammazzanonne, cioè delle Persone Malvagie. Questa demonizzazione senza sosta di un determinato punto di vista istiga al silenzio e ha generato addirittura un senso di vergogna fra alcuni elettori di Trump, cosa che non promette niente di buono per la democrazia e per ciò che le permette di prosperare: un dibattito libero e aperto.

Come ha dimostrato Brown con la sua sbrigativa liquidazione di un’anziana signora reputata una fanatica, per loro la sbrigativa demonizzazione delle persone che hanno opinioni antitetiche alle proprie è una cosa che viene naturale. 

Obama e gli operai «rancorosi»

Uno degli esempi più memorabili di questo atteggiamento accadde nell’aprile 2008, quando, nel corso della campagna elettorale per le presidenziali americane, Barack Obama pronunciò il discorso del “Bittergate”. È questo il nome che fu dato alla polemica provocata dalle dichiarazioni del candidato democratico a un evento per la raccolta fondi a San Francisco. Obama stava parlando della sua difficoltà a conquistare gli elettori della classe operaia alle primarie della Pennsylvania, quando disse: «Non sorprende che diventino rancorosi [they get bitter, da cui “Bittergate”, ndt], che si aggrappino alle armi o alla religione o all’antipatia verso le persone diverse da loro o alle idee anti-immigrati o anti-mercato per spiegare le loro frustrazioni». Questa superficiale e deliberata mortificazione della gente di provincia mandò un messaggio molto chiaro in merito alla linea di faglia culturale che divide l’America oggi. Lui è blu (democrat e liberal), loro sono rossi (repubblicani e tradizionalisti); lui è illuminato, loro rancorosi.

A sorreggere la sprezzante descrizione obamiana della gente di provincia della Rust Belt è la convinzione che queste persone abitino in un universo morale diverso da quello dell’America illuminata. Modi di vedere simili sono espressi spesso dagli esponenti dell’élite in Europa, specie quando parlano tra loro. Paradigmatica in proposito una conversazione fra un gruppo di aristocratici italiani, uomini d’affari e personalità della cultura riuniti a cena su una terrazza panoramica romana dopo il successo dei partiti populisti alle elezioni politiche del 2018. Un cronista del Times li osservò starsene seduti in cerchio a «digerire amaramente gli eventi», un avvocato lì presente dichiarò che gli elettori sono «bestie» e «antropologicamente diversi». Come Obama, l’avvocato non aveva dubbi sul fatto che quei populisti fossero moralmente inferiori alle persone illuminate sedute con lui intorno a quella tavola.

Non avversari ma nemici

Quando Hillary Clinton condannò i sostenitori di Trump come «miserabili» [deplorables, ndt], quel che aveva in mente era la gente «antropologicamente diversa» che sta dalla parte sbagliata della faglia culturale. I miserabili non sono oppositori politici, sono il nemico. Questo giudizio è propugnato da due accademici olandesi, Koen Abts e Stefan Rummens, i quali hanno scritto che i populisti sono «non più avversari ordinari, ma nemici politici», nemici che, «se necessario, [dovrebbero essere] esclusi dal potere». In quest’ottica, i populisti che dissentono dalle opinioni dell’élite dovrebbero essere trattati come criminali culturali.

Paradossalmente, il disprezzo con cui è trattato il dissenso tende a rivelare l’insicurezza dell’élite culturale. A sua volta l’atteggiamento arrogante nei confronti di chi osa mettere in questione la visione del mondo globalista dell’élite provoca risentimento e rabbia. E il risentimento, producendo quel senso per cui “quel che è troppo è troppo”, è stato uno dei motori più importanti del movimento pro Brexit. Più in generale, benché il populismo del 21esimo secolo esprima un’ampia varietà di interessi e obiettivi diversi, è sempre alimentato dall’aspirazione a creare una voce attraverso la quale un risentimento pre-esistente possa essere comunicato.

Un problema da «estirpare»

Nonostante il diritto al dissenso goda della tutela della legge, nella pratica è messo a dura prova da istituzioni legate ai media che vogliono impedire la discussione. Adesso si utilizzano regolarmente, insieme alla censura, le cosiddette leggi contro l’odio per mettere un freno al dissenso. Mentre scrivo, sento dire che praticamente chiunque esprima una preoccupazione riguardo all’impiego obbligatorio del vaccino contro il Covid viene condannato come membro dell’ingenuo movimento anti-vaxx. Viene castigato in quanto moralmente reietto. Nel Regno Unito, il Partito laburista si è spinto fino a invocare una nuova legge per «estirpare i pericolosi» contenuti antivaccinisti online, il ministro ombra della Sanità, Jonathan Ashworth, ha detto che quei contenuti «sfruttano le paure della gente, la sua sfiducia verso le istituzioni e i governi, diffondono veleno e fanno danni».

Il tentativo in atto di impedire il dibattito sul vaccino sicuramente non farà che confermare le opinioni di milioni di persone convinte che “stanno nascondendo qualcosa” e che non ci si può fidare delle autorità. Gli scettici verso i vaccini ci sono sempre stati, ma rispondere con la mano pesante ai loro timori può innescare una reazione che finirà per ingrossare proprio le file di quegli scettici. Quando i cittadini sentono che la loro voce è ignorata, cercheranno nuovi mezzi per esprimersi. È questo il motivo per cui l’attuale movimento populista ha acquisito una presenza tanto importante, ed è questo il motivo per cui, malgrado la sconfitta di Trump, non se ne andrà tanto presto.

***

Frank Furedi, autore di questo articolo, professore emerito di Sociologia alla University of Kent, è una delle voci più ascoltate e provocatorie del mondo intellettuale anglosassone. Di origini ungheresi, ha militato nella sinistra radicale in gioventù. I suoi numerosi saggi e articoli sono stati pubblicati in molti paesi, Italia compresa. È firma di punta della rivista libertaria spiked.

Foto Ansa

Tags: Barack ObamabrexitFrank Furedigordon brownhillary clintonjoe bidennew york timesno vaxpopulismopopulistitempi dicembre 2020washington post
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