Perché demonizzare i “populisti” serve solo a ingrossarne le fila

Di Alfredo Mantovano
03 Marzo 2017
Quella etichetta È usata oggi come quarant’anni fa il Pci adoperava l’etichetta “fascista” per chiunque non fosse in linea col “Progresso”
epa05764898 A placard reading 'Trump and Brexit two sides of the same racist coin' is seen during a protest against parliament's vote to invoke Article 50 outside parliament in London, Britain, 01 February 2017. Parliament is holding its final day in a two-day long debate on the bill to trigger Article 50 and Britains exit from the EU. MP's will vote to trigger Article 50 on 01 February. EPA/ANDY RAIN

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Un fantasma si aggira sull’Europa… Questa volta si chiama populismo. A che serve demonizzarlo? Ciò che cade sotto questo nome è un insieme di reazioni, talora sbagliate nel merito, quasi sempre inadeguate, all’assenza di scelte politiche di fronte a problemi quotidiani veri. L’Europa a 28 non decide le questioni importanti e si impegna in regolamentazioni tanto dettagliate quanto distanti dalla realtà, per una serie di ragioni: non ultima la circostanza che è a 28. Nei consigli dei ministri dell’Unione un tavolo a 28 è ingestibile: ciascuno ha a disposizione un paio di minuti per l’intervento principale e, quando va bene, un tempo analogo per la replica. Come è possibile affrontare un negoziato con tanti interlocutori e così poco tempo a disposizione?

Se mancano le occasioni e i tempi per un confronto vero fra i 28, che con la Brexit scendono a 27, ma potranno crescere con i cinque nuovi Stati candidati all’ingresso e due potenziali, può accadere che ci si acquieti su documenti generici preparati dai tecnici, così generici che non forniscono nessuna soluzione alle questioni di volta in volta all’esame. Quanti vertici, per fare l’esempio più clamoroso, hanno avuto per oggetto l’immigrazione? Quali risultati hanno prodotto?

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Governi ed elettori esautorati
Se gli esiti sono mancati è anche perché il tavolo tecnico preliminare non è in grado di sciogliere nodi che esigono scelte politiche, a loro volta frutto se necessario di confronti e anche di scontri, e quindi si opta per qualcosa che, non scontentando nessuno, non risolve nulla. Può accadere, è la seconda ipotesi, che le decisioni dei 28 siano preparate non dai burocrati, bensì da direttori politici ristretti – è successo più d’una volta con gli accordi previ fra Germania e Francia – e poi siano imposte agli altri; ma questo genera insoddisfazione fra gli Stati esclusi. Infine, può avvenire che i provvedimenti degli organismi europei costituiscano il recepimento di decisioni adottate da altri organismi, non rappresentativi, come il Fmi o la Bce o le due Corti di giustizia. In tal caso il tasso di insoddisfazione coinvolge non solo i governi di singoli Stati che si sentono messi ai margini, ma pure i popoli che subiscono scelte che non rappresentano le soluzioni ai loro problemi.

La dinamica è semplice: io, singolo europeo, non ho gli strumenti per manifestare, per esempio, la mia totale contrarietà verso una sentenza della Corte di giustizia, che colloca i desideri al posto dei diritti. Quella singola volta in cui mi viene concessa la possibilità di votare, pur se l’oggetto del voto è un altro, utilizzo la scheda per posizionarmi il più lontano possibile dall’orientamento egemone che sento come una imposizione. In questo meccanismo di rifiuto c’è parte di Brexit, c’è il successo mancato per poco del referendum sull’immigrazione in Ungheria, c’è parte del No al referendum costituzionale in Italia, c’è l’avanzata dei partiti che vengono qualificati populisti. Se io voto in questo modo non vuol dire obbligatoriamente che condivida queste posizioni: è certo invece che intendo mandare un segnale a un sistema europeo che reputo lontano e ostile.

Il vizietto di etichettare
Rispondere demonizzando la reazione equivale a gettare benzina sul fuoco. La risposta seria deve andare alla reazione. E invece l’etichetta “populista” viene usata oggi più o meno come quarant’anni fa si adoperava l’etichetta “fascista”. Nella gran parte dei casi era bollato come “fascista” non il nostalgico del Ventennio o il fan di Benito Mussolini, ma chiunque non fosse in linea col Progresso: arbitro di decidere chi fosse in linea col Progresso oppure no era sul piano politico il vertice del Partito comunista italiano, sul piano culturale l’élite a esso omogenea. Oggi i soggetti che rilasciano questa patente sono altri, sono le élite europeiste, ma non cambia l’automatismo. Era un errore quello. È un errore questo. Non coglierlo significa condannarsi a riproporlo, con esiti di sempre maggiore distanza dalle istituzioni. La soluzione non sta né negli slogan urlati, né nelle etichettature di comodo, ma nella coraggiosa quanto faticosa ricerca di risposte concrete per le vite quotidiane dei popoli che fanno parte dell’Europa.

Foto Ansa

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