«I funerali delle vittime di Lampedusa con gli emissari del regime eritreo sono un insulto»

Di Leone Grotti
21 Ottobre 2013
Padre Mussie Zerai, "angelo dei profughi", racconta a tempi.it il dramma degli sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre. E denuncia: «Spie di Asmara raccolgono informazioni su di loro e le autorità italiane glielo lasciano fare»

«Questo funerale è una presa in giro. Ma come si fa a invitare ufficialmente l’ambasciatore eritreo in Italia, che rappresenta il regime, alle esequie di centinaia di persone morte per scappare dall’orrore di quello stesso regime?». È sconsolato padre Mussie Zerai, sacerdote cattolico eritreo che vive tra Roma e Svizzera, soprannominato da tanti “l’angelo dei profughi”, perché chi sale sui barconi nella speranza di raggiungere l’Europa come prima cosa chiama lui per chiedere aiuti quando i bastimenti rischiano di affondare. Oggi ad Agrigento si terranno i funerali dei 365 profughi che sono morti lo scorso 3 ottobre davanti a Lampedusa, insieme ad altri 20 deceduti davanti ad Agrigento pochi giorni dopo, ma per padre Zerai «sono un insulto alle vittime».

Perché i funerali ad Agrigento sono «una presa in giro»?
Prima il premier Letta ha annunciato in mondovisione che sarebbe stato un funerale di Stato e poi l’hanno declassato a cerimonia pubblica per commemorare i defunti. Hanno annunciato la data solo giovedì scorso, impedendo così a molte famiglie che volevano partecipare di organizzarsi. Per di più sarà un funerale in assenza delle salme, che sono già state tumulate, ed è stato invitato ufficialmente anche l’ambasciatore in Italia del regime eritreo. Allora mi chiedo: a che cosa serve un funerale così?

E cosa si risponde?
Che serve a certe persone per mettersi la coscienza a posto e poter dire di aver fatto qualcosa. Ma sono già stati creati fin troppi problemi.

A cosa si riferisce?
L’ambasciatore eritreo insieme a due funzionari ha chiesto al governo italiano la lista dei sopravvissuti al naufragio di Lampedusa, 148 eritrei. Questo è pazzesco, noi l’abbiamo saputo e abbiamo avvisato subito l’Onu, che ha contattato il ministero degli Interni, che a quel punto gliel’ha negata. Però a Lampedusa è stato permesso ad alcuni eritrei, spie del regime, di entrare a contatto con i sopravvissuti. Queste persone stanno prendendo le loro generalità, fanno foto, ottengono informazioni. Non doveva essere permesso a nessuno di mettere in pericolo le vite delle famiglie dei richiedenti asilo e quindi anche dei sopravvissuti stessi.

Qual è il pericolo?
Se i nomi dei richiedenti asilo, come avvenuto in passato, viene comunicato in patria, il regime eritreo multerà le famiglie dei sopravvissuti con cifre esorbitanti pari a 50 mila nakfa, che là valgono come da noi 50 mila euro. E chi non può pagare, viene arrestato.

Da che cosa scappano questi giovani eritrei?
Dal terribile regime e dal sistema che vige nel paese. Le libertà fondamentali sono negate: non esiste libertà di stampa, associazione, pensiero, religiosa. I cristiani vengono perseguitati ma non finisce qui. Ai giovani viene rubato il futuro perché ognuno deve fare circa 20 anni di servizio militare obbligatorio. Fino anche a 50 anni. Ma come fa un ragazzo a progettare il suo futuro se per 20 anni deve vivere solo per lo Stato? Come può realizzarsi? E non si può neanche scappare, perché nessuno ottiene un passaporto se lo Stato non glielo concede. E scappare è solo l’inizio dell’incubo.

Quale incubo?
Gli eritrei sono continuamente ricattati, subiscono estorsioni, rapimenti, torture, abusi sessuali in Sudan, Etiopia e Libia. Solo qualche giorno fa mi hanno chiamato delle donne da un centro vicino a Tripoli dove vengono stuprate dai militari e mi hanno chiesto di trovare un modo di tirarle fuori da lì. Nel sud della Libia ci sono più di 1.200 persone detenute in un bunker sotterraneo con il caldo che fa, senza servizi igienici, in condizioni pessime e sono insultati e picchiati, spesso discriminati perché cristiani. A Bengasi miliziani hanno portato via da dei centri della Mezzaluna Rossa alcuni eritrei e li hanno feriti gravemente sparando all’impazzata.

Perché il regime permette che queste persone scappino?
Sono gallinelle dalle uova d’oro: è il regime infatti che spesso favorisce le fughe per diversi motivi. Prima di tutto usano l’emigrazione come valvola di sfogo, per non avere troppi giovani in patria che possano fare la rivoluzione. Poi, essendo molti funzionari statali coinvolti nei traffici umani, li incitano a scappare e dietro compenso li accompagnano al confine con le auto di Stato. Infine, il regime pretende da tutti gli eritrei all’estero il 2 per cento su tutto quello che guadagnano. E se le persone non glielo corrispondono, loro non forniscono alcuni documenti necessari a vivere in un altro paese come il certificato di nascita o lo stato civile. Ecco perché chi vuole fare il ricongiungimento familiare spesso cerca di far scappare moglie e figli in Sudan per poi richiederlo da lì.

Perché ha scritto una lettera al ministro Cécile Kyenge?
Perché ha ricevuto un gruppo di una comunità eritrea, senza sapere probabilmente che sono sostenitori del regime. Le ho scritto perché deve sapere con chi sta parlando e chi riceve.

L’Eritrea ha chiesto i corpi delle vittime.
Speculano sulla pelle delle persone. Vogliono i corpi«S per rifarsi la faccia, vogliono mostrarsi al pubblico come persone che si interessano dei loro connazionali e della loro dignità. Ma come pensano di rispettarli da morti se non lo hanno fatto quando erano vivi?

È vero che molti eritrei la chiamano già quando si trovano sui barconi?
Sì, io ricevo le loro telefonate e come prima cosa avviso le autorità marittime italiane o maltesi, poi cerco di sensibilizzare le istituzioni perché queste persone che chiedono asilo vengano accolte.

Di cosa ha bisogno l’Italia da questo punto di vista?
Le istituzioni italiane sono in grado di ascoltare, hanno buoni intenti ma poi mancano i fatti. Noi chiediamo da 15 anni una legge sul diritto d’asilo e ancora non c’è. C’è anche bisogno di un sistema di accoglienza nazionale perché i profughi vengano redistribuiti in tutto il territorio, con annesso un programma di integrazione, cioè corsi di lingua e professionali perché possano accedere al mondo del lavoro. Tanti rifugiati oggi non hanno neanche un tetto e vivono nelle baraccopoli o in palazzi dismessi.

@LeoneGrotti

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2 commenti

  1. Filippo

    Comunque la Kyenge non ce la fa proprio…

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