Google è responsabile della radicalizzazione dei terroristi islamici?
C’è una disposizione normativa statunitense, la cosiddetta Section 230, che consta di appena ventisei parole: «No provider or user of an interactive computer service shall be treated as the publisher or speaker of any information provided by another information content provider». Queste ventisei parole, nel giudizio degli esperti, sono così importanti da aver addirittura «creato» Internet. Difatti, dal momento che i providers non possono essere ritenuti responsabili per i contenuti caricati dagli utenti o da soggetti terzi, l’immunità assicurata dalla Section 230 ha contribuito in modo determinante allo sviluppo delle comunicazioni online, consentendo una rapida e vasta circolazione alle più disparate informazioni.
La norma che ha “creato” Internet sotto accusa
Da qualche anno a questa parte, però, il regime di immunità proprio della Section 230 ha attirato su di sé il disappunto, quando non proprio gli attacchi, di politici, intellettuali e attivisti tanto di destra quanto di sinistra. Destino invero curioso, se si pensa al fatto che la Section 230 fu il frutto della collaborazione tra un deputato repubblicano e uno democratico, e che venne approvata, nel 1996, quasi all’unanimità da entrambe le camere del Congresso. Altri tempi: e non solo per un diverso senso di bipartisanship, ma soprattutto per un differente atteggiamento nei confronti dei “giganti” di Internet.
Questi ultimi, infatti, non sono più visti soltanto nei loro aspetti positivi, ma vengono invece accusati o di atteggiamenti faziosi nei confronti di certe informazioni “sgradite” (ed è la protesta che viene solitamente da destra) o di aver generato una concentrazione di potere economico in grado di danneggiare la concorrenza (ed è la critica mossa usualmente da sinistra). Chi avanza queste lamentele ritiene, di conseguenza, che il regime di immunità della Section 230 sia ormai ingiustificato, se non addirittura nocivo.
La studentessa uccisa dall’Isis e l’algoritmo di Google
E poiché, come aveva intuito per primo Tocqueville, negli Stati Uniti non esiste problema politico che presto o tardi non diventi una questione giudiziaria, ecco che la Section 230 è finita al vaglio della Corte suprema federale. In questi giorni, i nove giudici della Corte di Washington hanno tenuto udienza in due casi “gemelli”: Gonzalez v. Google LLC e Twitter Inc. v. Taamneh. Il caso che ha maggiormente attirato l’attenzione pubblica è il primo. In esso, i familiari di Nohemi Gonzalez – una studentessa americana di 23 anni uccisa a Parigi, nel Novembre 2015, in uno degli attenti terroristici riconducibili allo Stato Islamico (ISIS) – hanno intentato causa nei confronti di Google, sostenendo che l’algoritmo di YouTube (che è posseduto da Google) avrebbe giocato un ruolo chiave nel radicalizzare gli attentatori.
Come è noto, l’algoritmo opera in modo da mostrare all’utente contenuti affini a quelli oggetto delle sue ricerche. Nella ricostruzione dei familiari di Gonzalez, sarebbe stato proprio l’algoritmo a “suggerire” ai futuri attentatori il video con cui l’ISIS reclutava nuove leve. Per tale ragione, hanno chiesto alla Corte suprema se la Section 230 possa trovare applicazione anche quando le piattaforme realizzano raccomandazioni mirate (targeted recommendations) di informazioni presenti sui loro siti, o soltanto nei casi in cui esercitino funzioni editoriali per così dire più tradizionali (come decidere se consentire o meno la pubblicazione di tali informazioni).
Lo scetticismo dei giudici sul caso
Per la soluzione si dovrà attendere la prossima estate, quando la Corte suprema pronuncerà la sentenza. Qualche anticipazione del futuro giudizio può, però, ricavarsi dalle domande che i giudici hanno posto nel corso dell’udienza, e dalle quali è emerso un certo scetticismo verso la richiesta della parte attrice. Clarence Thomas, che è considerato il giudice più conservatore e che nel passato ha evidenziato alcuni aspetti critici della Section 230, ha affermato di non essere convinto che YouTube (e, per estensione, Google) possa ritenersi responsabile della radicalizzazione degli attentatori. Analoghi dubbi sono stati avanzati da Sonia Sotomayor, all’opposto ritenuta la giudice più progressista. Qualche apertura, ma non dirompente, è stata espressa soltanto da Neil Gorsuch e Ketanji Brown Jackson, nominati rispettivamente da Donald Trump e Joe Biden.
Una norma che forse va aggiornata. Dal Congresso?
Ma al di là del merito della questione, il tema che ha maggiormente accomunato le domande dei giudici è quello relativo all’inopportunità della modifica di una legge così importante per via giudiziale. Detto altrimenti, non può escludersi che i tempi siano maturi per una revisione della Section 230, per esempio ammettendo che la specificità dell’algoritmo giustifichi una sorta di responsabilità oggettiva per rischio di impresa a carico di chi se ne serva. Tuttavia, proprio perché gli effetti di una simile scelta sarebbero profondissimi, è necessario che sia il Congresso a farsene carico.
Infatti, là dove il regime di immunità venisse ridotto o addirittura saltasse del tutto, il rischio è che le piattaforme possano adottare una condotta estremamente “prudente”, per esempio cancellando qualsiasi contenuto ritenuto controverso. È facile immaginare che la rimozione di un video di reclutamento per terroristi trovi tutti d’accordo, ma che dire dell’ultimo post di un politico, nonché di un attore o di uno scrittore, che qualcuno potrebbe trovare offensivo? Insomma, se «le ventisei parole che hanno creato Internet» vanno sostituite con un nuovo equilibrio normativo, quest’ultimo non può essere individuato da un tribunale, che manca della possibilità di inquadramento complessivo del problema propria del legislatore. D’altronde, come ha ricordato Justice Elena Kagan durante l’udienza, i giudici della Corte suprema «are not the nine greatest experts on the internet».
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