
Giovanni Paolo II non voleva uscire dalla modernità. Voleva renderla più vera

Quella che segue è la seconda parte della cronaca del convegno di filosofia “Con la forza di un gigante, Giovanni Paolo II e la modernità”, organizzato sabato scorso 19 ottobre a Milano dal Centro internazionale Giovanni Paolo II, dall’associazione culturale Esserci e dal Centro francescano Rosetum.
Un evento di grande spessore durante il quale hanno preso la parola il cardinale Willem Jacobus Eijk, arcivescovo di Utrecht e primate della Chiesa olandese, il professor Marco Cangiotti dell’Università degli studi di Urbino Carlo Bo e il professor Francesco Botturi dell’Università Cattolica di Milano. La prima parte, dedicata all’intervento del cardinal Eijk, è disponibile in questa pagina di tempi.it.
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All’intervento del cardinal Eijk sono seguiti quello del professor Marco Cangiotti su “Verità, libertà e politica nel magistero di Giovanni Paolo II” e la lezione del professor Francesco Botturi su “Cultura, prassi e neoumanesimo moderno in papa Wojtyla”.
UN’ALTRA MODERNITÀ È POSSIBILE
«Il magistero di Giovanni Paolo II non rappresenta la proposta di una uscita dalla modernità ma la delineazione di un suo possibile inveramento», ha esordito Cangiotti. In realtà ci troviamo di fronte a due diverse interpretazioni della modernità, quella ateistica e quella cristiana. Entrambe ruotano attorno al concetto di autodeterminazione, ma lo intendono diversamente. «La prima, tipica del versante ateistico, si sostanzia nell’idea della libertà come pura arbitrarietà dell’individuo umano concepito come soggetto assoluto; la seconda, invece, propria della concezione cristiana ed esaltata nel Magistero di Giovanni Paolo II, non censura la condizione di relazionalità e di conseguente responsabilità dell’attore».
Le ideologie del postumano e del gender sono le versioni più recenti dell’interpretazione ateistica dell’autodeterminazione. «Se si volesse trarre una sintesi unitaria di queste due forme ideologiche si potrebbe senz’altro dire che in esse appare come elemento centrale una idea dell’uomo pensato – qui la radice è Marx – come un ente generico e quindi totipotenziale, in nulla condizionato da una dimensione oggettiva e indisponibile alla sua manipolazione. In queste due ideologie la realizzazione dell’uomo è pensata come il prodotto della azione di tecnologia e cultura assimilate in una unità di carattere prometeico-manipolatorio».
L’ANNULLAMENTO DELL’UMANO E LA SUA VERITÀ
Qui in realtà comincia l’annullamento dell’umano: «Questo risultato antropologico in cui l’interpretazione atea della modernità trova compimento è un risultato contraddittorio, perché se da una parte si afferma l’assolutezza della soggettività umana rimuovendo ogni alterità, dall’altra parte si finisce col rimuovere la stessa soggettività umana attraverso un processo di autodeterminazione che diventa un processo di oggettualizzazione: l’uomo è un oggetto disponibile alla arbitraria manipolazione tecnologica e culturale e poco importa se sia l’uomo stesso ad automanipolarsi».
«Il Magistero di Giovanni Paolo II costituisce una sorta di contromovimento alternativo alla modalità interpretativa atea della modernità. La convinzione di fondo che lo anima è che per abitare adeguatamente il tempo presente sia necessario partire dalla verità sull’uomo, e tale verità è prima di tutto una verità teologica. Incessantemente Giovanni Paolo II si riferisce alla splendida definizione di tale verità formulata dalla Gaudium et spes: l’uomo “è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa” e, nel contempo, è anche il solo essere creato che “non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé”. Detto in altri termini, il carattere di dono che qualifica l’intelligenza e la libertà umane implica che esse si possano realizzare solo nella misura in cui si mostrino capaci di assumere per parte loro la stessa logica del dono da cui provengono. L’uomo è dunque un essere intelligente, libero e strutturalmente relazionale e, per tale motivo, si rivela come una persona».
LA LIBERTÀ DI SCEGLIERE IL BENE
«Wojtiyla mette in luce il versante “soggettivo” della dinamica morale, assumendo con ciò in pieno una delle istanze fondamentali della modernità, senza tuttavia venire meno in nulla alla costituzione oggettiva della verità morale». L’autodeterminazione cristiana consiste in questo: «La volontà decide, ma decide alla luce dell’attrattiva che il bene esercita su di essa a partire dalla sua evidenza interiore. Questa attrattiva è ben presente ed opera, ma allo stesso tempo non annulla la libertà; infatti, la persona ha sempre la possibilità di dirle di no, e dunque è ancora la persona che deve decidere di lasciarsi attrarre».
«Se non vi fosse l’attrattiva esercitata dal bene, la volontà umana sarebbe esposta solamente all’attrattiva esercitata dai propri desideri e dal fascino delle cose e così finirebbe per decidere sotto la loro pressione irresistibile. La verità, dunque, lungi dall’avvilire la libertà della persona, la spalanca, le dà modo di esercitarsi come libera decisione. L’istanza moderna della valorizzazione della dinamica del soggetto e della sua coscienza risulta con tutto ciò pienamente accolta, ma anche del tutto sottratta al rischio della sua possibile declinazione soggettivistica».
IL PRIMO DIRITTO
Tutto questo ha riflessi sulla politica, dove il metodo deve essere quello della “libertà religiosa” e della “verità della democrazia”. «Se, dunque, il destino della persona è quello di una libertà che cerca di realizzarsi nella verità, la persona deve essere libera di ricercare la verità e di professarla, e quindi nessun ordine politico, qualunque esso sia, ha facoltà di violare la coscienza della persona. Il primo diritto che allora sorge è quello della libertà religiosa. La persona umana, proprio perché dotata di libertà di coscienza, è con ciò stesso titolare di diritti politici; per tale motivo il suo essere cittadino, ossia membro di una comunità politica, non può essere in alcun modo neutrale rispetto alla forma di governo di questa comunità, ma postula invece che tale forma di governo sia quella che assicura nella maniera più ampia possibile il godimento della libertà di coscienza, ovvero che sia quella democratica».
Democrazia che secondo Cangiotti «non può essere intesa come semplice e impersonale procedura formale, ma come risultato di una precisa conformazione morale dei suoi attori». Non è vero che solo sulla base del relativismo può esserci democrazia: «Venendo meno la dialettica fra politica e verità, il risultato non è affatto una prassi sociale universalizzata e capace di universale pacificazione, ma l’instaurazione del totalitarismo, ossia di una condizione in cui la politica si presenta anche come fonte diabolica della “verità”. Pertanto, il tentativo di edificare una democrazia fondata sul relativismo, avendo sterilizzato ogni suo rapporto con il contenuto fondamentale della persona umana quale soggetto morale, non potrà che produrre una situazione di disordine sociale, anche se perfettamente regolato da un ferreo apparato giuridico». Ieri il totalitarismo del Novecento, oggi il totalitarismo del politicamente corretto.
LA NECESSITÀ DELLA CULTURA
In apertura della sua relazione Botturi ha ricordato le famose affermazioni dell’allocuzione di Giovanni Paolo II all’Unesco il 2 giugno 1980: «L’uomo vive di una vita veramente umana grazie alla cultura. La vita umana è cultura nel senso anche che l’uomo si distingue e si differenzia attraverso essa da tutto ciò che esiste nel mondo visibile: l’uomo non può essere fuori dalla cultura». «Queste affermazioni», ha spiegato, «indicano nella cultura la cifra differenziale, dinamica e sintetica dell’essere umano, sono già in se stesse la proposta di un neo-umanesimo. La proposta del Papa costituisce una sfida nei confronti sia della crisi dell’ideologia marxista, sia della tecnocrazia postmoderna», che riducono l’uomo alla sua prassi. «Gran parte del magistero di Giovanni Paolo II, letto in chiave antropologica, costituisce una grande offerta di ricomposizione dell’unità dell’umano sotto vari aspetti (ragione-fede, prassi-cultura, lavoro-diritti umani, esperienza morale-vita, famiglia-vita sociale, Stato e Nazione, eccetera), in cui la dimensione culturale rappresenta una chiave ermeneutica indispensabile».
«Nel discorso all’Unesco è chiara la consapevolezza che di cultura ha senso parlare non in riferimento ai “prodotti” culturali, ma alla “natura dell’uomo”. La cultura di cui parla il Papa è dunque la capacità culturale ovvero la culturalità dell’uomo: nulla l’uomo può esperire senza fare cultura. L’unica prospettiva adeguata per comprendere questo senso di cultura è quella di porsi dal punto di vista di una certa filosofia dell’azione, dell’agire umano, che sola permette anche di apprezzare la portata neo-umanistica del discorso del Papa».
Quanto l’idea di agire umano di Wojtyla sia lontana dal prassismo sia marxista che tecnocratico si coglie nel suo libro Persona e atto. «Persona e atto è la polarità che Karol Wojtyla ha indagato con metodo fenomenologico-trascendentale nella sua principale opera filosofica: “L’uomo”, scrive, “si rivela nell’agire e attraverso l’agire, nell’atto e attraverso l’atto. Quindi la persona e l’atto costituiscono una realtà dinamica profondamente compatta”. La persona infatti esiste solo in azione, è esistenzialmente immersa nel suo atto, in essa è presente e si rivela; ma, nello stesso tempo, la persona è sempre più del suo atto, perché è dotata di un autodominio e un autopossesso della libertà che la rendono capace di autotrascendenza, cioè di non essere mai conclusa nel suo stesso agire».
VIVERE LA FEDE
«C’è un legame organico e costitutivo tra la religione, il cristianesimo in particolare, e la cultura», spiega Botturi. «È chiaro, infatti, che l’autotrascendenza della persona, che sta a fondamento della cultura, e i caratteri di gratuità, di universalità e l’aspirazione all’immortalità che la caratterizzano, hanno una profonda parentela con la richiesta di senso e di salvezza costitutiva della dimensione religiosa. Per questo, come Giovanni Paolo II ha richiamato tante volte, bisogna rendere sempre di nuovo cultura la fede, perché una fede che non diventa cultura, è una fede “non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”, come disse in un suo intervento».
«La cura con cui Wojtyla ha indagato la culturalità umana comporta un discernimento critico circa le esperienze culturali che si fanno e i loro modelli prevalenti. L’antropologia wojtyliana ci aiuta a comprendere che il prassismo – l’interpretazione prassista della prassi umana − costituisce un elemento di forte continuità tra marxismo e tecnocrazia avanzata. La visione del mondo e la pratica storica del marxismo classico dipendono dalla definizione dell’uomo come prassi, secondo cui la realtà dell’uomo coincide senza resto con il processo storico della sua stessa prassi intesa come processo di trasformazione del mondo e di autotrasformazione».
UNA NUOVA PROSPETTIVA UMANISTICA
Questa tesi, secondo Botturi, «è operativa tanto nel cuore dell’ateismo marxista, quanto nel nichilismo tecnocratico: l’umano si spiega esaurientemente con la concatenazione delle trasformazioni storiche con le quali l’uomo si prende in mano, produce e riproduce se stesso e definisce il suo destino. Questa interpretazione della prassi esige che la concezione dell’uomo, della sua cultura, delle sue relazioni sia radicalmente epurata da ogni rinvio metafisico, ma anche in ultima istanza da una reale consistenza ontologica. La radicalità storicista inclina così verso una decostruzione nichilista dell’umano».
«Ma nell’autodissoluzione della filosofia della prassi così intesa che cosa resta? Quello che già Del Noce ha segnalato, ovvero, un principio di radicale autoreferenzialità delle libertà e un potere tecnicista, anch’esso autoreferenziale, cioè finalizzato all’esclusivo suo potenziamento».
«Anche la Chiesa cattolica», ha concluso Botturi, «nel momento in cui privilegia il momento pratico pastorale e avverte l’urgenza di una nuova prospettiva umanistica deve saper fare i conti con gli esiti antiumanisti del prassismo moderno-contemporaneo, pena avviare processi culturali destinati ad essere obiettivamente funzionali al prassismo piuttosto che a nuove buone pratiche».
(2. fine)
Foto Ansa
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