Giornata nazionale della Sla. Dopo l’acqua ghiacciata è tempo di versare un po’ di vino
Marrone, che accadde il 18 settembre 2006?
Quel giorno i malati di Sla scesero in piazza non per manifestare, ma per testimoniare la loro vita. Si è trattato di “pride”, un termine che oggi associamo a battaglie ideologiche, e che invece originariamente era utilizzato negli Usa da chi era portatore di disabilità e non se ne vergognava. Immaginiamo, oltre tutto, per un malato di Sla la difficoltà di uscire dalla propria abitazione e andare fino a Roma. Ma ne valse la pena. È stato allora che molti sono venuti a conoscenza di questa malattia e che le istituzioni hanno cominciato a mostrare un po’ di interesse. Che però non è mai abbastanza, così come i fondi messi a disposizione delle famiglie.
Ultimamente si è parlato di Sla, grazie al fenomeno dell’Ice bucket challenge.
Sì, ma noi ci siamo da molto più tempo. La nostra associazione festeggia il 31esimo anno di vita. Non è stato sempre facile, anzi non lo è mai stato. È sempre stato un lavoro silenzioso, abbiamo aiutato le famiglie e i malati contando solo sui nostri mezzi, e su qualche aiuto saltuario di testimonial famosi ma affezionati alla nostra causa. Certo, l’Ice bucket challenge di quest’estate ci ha dato un aiuto prezioso.
Sono state raccolte cifre importanti?
Negli Usa hanno raccolto cifre da capogiro, ma anche in Italia è andata bene. Grazie alle docce gelate sono stati raccolti un milione e 721 mila euro, tutti destinati alla ricerca. Con questa raccolta straordinaria le spese per la ricerca sono coperte per almeno altri tre, quattro anni. Potremo utilizzare gli altri nostri fondi per fare assistenza.
Cosa significa oggi fare ricerca sulla Sla?
Siamo realisti, ad oggi, una cura non c’è. I ricercatori puntano a migliorare i tempi delle diagnosi. Spesso i sintomi vengono sottovalutati, li si confondono con altri problemi neurologici o motori, e invece si potrebbe chiarire che si tratta di Sla in molto meno tempo. Inoltre, in laboratorio si cerca di capire il meccanismo genetico della malattia, a trovare il gene che la scatena. Anche se stiamo parlando di una minoranza assoluta, circa tre casi ogni centomila persone, capire come si potrebbe prevenire la malattia sarebbe importante. Il decorso è davvero veloce, il tempo che passa dalla diagnosi alla perdita dell’autosufficienza del malato è breve. La speranza di trovare un farmaco che possa arrestare la malattia nel suo svilupparsi non è ancora persa, comunque.
Insieme al dramma del malato, c’è il dramma delle famiglie.
Ci sono solo 250 volontari in Italia legati all’Aisla, un numero davvero esiguo. Oltre a loro, solo le famiglie si occupano di questo tipo di malati, che hanno bisogno di un aiuto su tutto. Il problema è che l’unico modo di trattare i malati di Sla è con la domiciliazione, non con il ricovero ospedaliero. Molte familiari sono costretti a lasciare il lavoro per seguire il proprio parente allettato. Pagare una persona che stia 24 ore su 24 accanto al malato è impossibile, e allora si preferisce rimanere a casa, rinunciando a un’entrata e vivendo di sussidi dati dallo Stato o dalle Regioni. Né l’uno né le altre fanno comunque abbastanza, per questo continuiamo a chiedere ai governanti di essere più generosi. Per questo creiamo iniziative come quella del prossimo 21 settembre, perché nessuno si debba sentire solo.
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