Te Deum laudamus per la vita illuminata di Susanna

Di Emanuele Boffi
04 Febbraio 2018
Lode a tutti i malati di Sla la cui esistenza è un continuo domandare fino allo sfinimento. Perché non è amore, se tiene le distanze
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Pubblichiamo il Te Deum scritto per il primo numero del mensile Tempi da Emanuele Boffi

Te Deum laudamus per Susanna, la mia amica sarda che faceva crescere le piante con gli occhi e che era capace di aspettare per mesi l’arrivo delle rondini, ansiosa di vederle ondeggiare nel cielo, sbirciandole attraverso lo spicchio di luce riversato in camera da una finestra sul cortile.

Te Deum laudamus per Susanna e per tutti quelli come lei, costretti a una vita dannata e malconcia a causa della Sla, motori immobili attorno a cui ruota una frenetica opera di dedizione gratuita, generosi miracoli quotidiani che il mondo non conosce, rifiuta, persino dileggia.

È morta questa estate, Susanna. Senza darmi il tempo di salutarla, prima, ma solo dopo, alle esequie, quando ormai si può rendere omaggio solo con il rito, la preghiera, l’incenso che sale lento dagli archi disegnati nell’aria dalle giravolte del turibolo. Me l’aveva scritto con gli occhi nell’ultima email che aveva dettato al suo computer: la mia trachea è un campo di battaglia accidentato e ferito da milioni di cambi di cannule, mi fa male, non ce la faccio più. Sono ormai quindici anni che convivo con la Sla, questa infausta malattia senza cura, questo accidente che m’è capitato quando avevo trent’anni, facevo l’orafa, i ragazzi mi occhieggiavano per le vie e io mi sentivo forte, determinata, pronta a sfidare l’esistenza, straripante di sogni giovanili e poderose aspettative.

E invece. E invece è arrivata una sentenza di morte, ma lenta, minuto per minuto, con i muscoli che piano piano s’irrigidiscono, le mani che diventano immobili appendici anarchiche, le gambe fusti di marmo e il cuore che continua a pulsare – maledetto – e il cervello che continua a funzionare – che sberleffo.

Me l’aveva confidato, una volta: che fortuna sarebbe una morte violenta. Un colpo e via. C’aveva pensato anche lei, quando ancora riusciva a muoversi, quando ancora poteva guidare l’automobile, premere forte sull’acceleratore, puntare un muro e ciao. A che vale la vita se alla vita è tolto tutto? Chi mi darà la forza per affrontare questa goliardata di un dio crudele?
E poi? E poi cosa è successo Susanna? E poi non lo so, non lo so, mi scriveva. Non ce l’ho fatta. Quando è stato il momento di decidere non ce l’ho fatta a non farmi attaccare al respiratore. È una cosa terribile, sai? È come morire soffocati, è come crepare affogati. In quel momento lì, se uno ti porge una mano, l’afferri. Anche se sai che poi, da lì in poi, sarà così tutti i momenti. Quella mano la dovrai afferrare ogni secondo, ogni volta che respiri, ogni volta che deglutisci. Dovrai umiliarti al punto che tutta la tua esistenza dovrà essere una richiesta d’aiuto, una dipendenza totale dagli altri, non un “potere”, ma un “domandare” fino allo sfinimento.

Te Deum laudamus per Susanna, che ogni giorno, per tre lustri, ha avuto l’ardire di aggrapparsi a quella mano. E te Deum laudamus per Immacolata, la sorella insegnante e le infermiere dell’ospedale di Sassari e il dottor Vidili, che quella mano, ogni giorno, e per quindici anni, senza sosta, senza ferie, col sole e con la luna, ogni minuto, ogni secondo che Dio ha mandato in terra, quella mano l’hanno porta, allungata, distesa verso quest’anima incarcerata.

Adesso ci dicono che quelli come Susanna devono fare le dat, le disposizioni anticipate di trattamento. Non capiscono niente. Non hanno visto niente. Non vogliono vedere niente. Non vogliono vedere Susanna e quelli come lei: pensano di essere generosi nel chiedere loro di morire, quando, come, se. Se ne lavano le mani: decidi tu. È la vita intesa come elenco di regole da rispettare, come disposizioni, come prontuario. E se ne lavano le mani. Dicci cosa dobbiamo fare, dicci come vuoi essere trattato, dicci come dobbiamo sbrigarcela con questo tuo involucro corporale scassato e malridotto, questo tuo guscio insensato che noi piangiamo certo, che noi compatiamo certo, che noi esibiamo nei galà di beneficenza certo, ma che noi schifiamo e tremiamo al pensiero che possa capitare a noi, soprattutto. Ecco, dacci una via di fuga, a noi compassionevoli Ponzio Pilato. Facci stare a distanza, dacci la scappatoia per non implicarci, per non faticare, per continuare spensierati a cacciare le farfalle nel parco: dacci le dat per sgravarci la coscienza che farti fuori non è sbagliato – l’hai chiesto tu, no? –, lo dice la legge, la legge dell’autodeterminazione, la parola canaglia che ha sostituito la libertà di prendersi cura l’uno dell’altro, di dedicarsi l’uno all’altro, di trovare la pazienza di regolare sondini e cannule, di tamponare le piaghe da decubito, di passare il fazzoletto sugli occhi quando lacrimano, sulla bocca quando sbava. Di volersi bene, in definitiva.

Te Deum laudamus per Susanna e Immacolata che hanno vissuto quindici anni della loro vita come Ismaele sul Pequod, senza paura di affrontare l’alto mare, senza timore di combattere la balena bianca della Sla, testimoniando a noi pavidi che nessuna vita è vana se illuminata da un amore incondizionato.

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