La furia islamista sui cristiani e sulle moschee di Mosul sono un nuovo «segno di Giona profeta». E noi gli scribi e i farisei
«Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta» (Mt. 12, 39). Le parole di Gesù rivolte ai farisei e agli scribi vengono in mente, con un significato tragicamente attuale, davanti al video della distruzione di uno dei simboli dell’islam sciita, la moschea di Giona, sulla collina di Al Tauba, a Mosul, costruita attorno a quella che secondo la tradizione era la tomba del profeta.
Duemila anni dopo, al profeta Giona è associato un segno altrettanto esplicito e terribile. Ancora una volta è un segno di distruzione – non evitata, come a Ninive, ma realizzata –, che colpisce un simbolo della fede cristiana, ricordato al tempo stesso dal Corano. Un “segno” che ha conosciuto uno spazio mediatico e di riflessione pari a qualche ora sui tg e a qualche colonna per ogni testata giornalistica il giorno successivo l’esplosione; poi più nulla. Come poco più di nulla sono l’informazione e la sensibilità relative all’esodo forzato e sanguinoso dei cristiani da Mosul, dai territori “liberati” dall’Isil, in Iraq come in Siria, e poi dall’Egitto e dalla Nigeria.
In uno studio del settembre 2004 pubblicato sulla rivista americana Commentary – tradotto e comparso sul Foglio – Norman Podhoretz, esponente di punta dei neocon dopo esserlo stato della sinistra newyorkese, elencava puntigliosamente – a partire dal 1979, da quei 52 diplomatici presi in ostaggio nell’ambasciata americana di Teheran da alcuni “studenti” iraniani – la serie incredibile di attentanti contro cittadini americani, rimasti senza alcun tipo di reazione da parte del governo federale. E ha ricordato, in particolare, che la convinzione di Osama Bin Laden di poter aggredire in modo devastante il territorio americano l’11 settembre 2001 è maturata avendo osservato l’atteggiamento che le varie amministrazioni di Washington avevano tenuto dopo le aggressioni subite da militari o civili statunitensi all’estero: in Libano, nel 1983, quando centinaia di marine perirono sotto le macerie di una caserma per mano degli hezbollah; in Somalia, nel 1993, dopo l’uccisione di alcuni ranger in missione di pace.
In Iran, in Libano, in Somalia, il terrorismo islamico aveva saggiato il “nemico”; l’11 settembre 2001 lo ha colpito, convinto di poterlo fare, a coronamento di una strategia che ha una sua logica, pur se criminale.
Cambiando ciò che va cambiato, discorso identico vale per le comunità cristiane oggi violentate e messe in fuga dalle loro terre. Disinteressarsene, da parte dell’Europa e dell’Occidente, equivale a moltiplicare gli attacchi nei loro confronti. È una indifferenza che provoca morte: anche per questo la “generazione” di un secolo aperto dall’abbattimento delle Twin Towers merita la qualifica di “perversa e adultera”.
Ancora una volta il “segno di Giona” – in questo caso le rovine della sua tomba – ammonisce che girarsi dall’altra parte equivale a radere al suolo le radici di fedi, popoli e civiltà; mentre l’esperienza di chi ha ascoltato, anche all’ultimo momento utile, rassicura che cogliere quel “segno” non è mai vano.
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3 commenti
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il nostro problema sono i “nostri fratelli rossi” che ci hanno portato a questo. Dovremmo sterminarli
Come dire: un esempio da buon cristiano. Se sei rosso devi essere sterminato…
SE ANCHE A NOI DOMANI…
Il mare di dolore e di distruzione causati dagli estremisti di ogni fatta e dagli integralisti islamici si va ogni giorno più estendendo. Tutti si credono autorizzati da Dio a far violenza e uccidere: Gott mit uns, In nome di Dio, In God we trust, Allah è grande… Il grido degli innocenti, dei poveri, dei distrutti dalla violenza – cristiani soprattutto – in questi ultimi tempi, sale ogni giorno al cielo, chiedendo a Dio giustizia e «liberazione dal male». «Per te ogni giorno siamo messi a morte, trattati come pecore da macello. Svégliati, perché dormi, Signore?… Sorgi, vieni in nostro aiuto; salvaci per la tua misericordia» (Salmo 43).
«Verrà un tempo in cui vi uccideranno e vi perseguiteranno, credendo di dar gloria a Dio» (Giov. 16, 2). La previsione di Gesù, col suo puntuale realizzarsi, fa venir la pelle d’oca. Sembra vanificata la parola del Signore: «Beati i pacifici, perché possiederanno la terra». Ma quando mai, se le cronache di ogni ora ci riportano persecuzioni e orrori inauditi contro i suoi discepoli? Impiccati, squartati dalle bombe, decapitati, crocifissi, lapidati, arsi vivi, calpestati nell’onore… Da anni, nel silenzio totale del mondo, questi fratelli nostri, veri santi martiri per la fede, subiscono queste scelleratezze in India, in Pakistan, in Egitto, in Siria, in Sudan, in Nigeria… Poveri fratelli nostri cristiani! Ogni nostra accoglienza, ogni comprensione, ogni dialogo, ogni tolleranza sono soverchiati da una crudeltà che chiamarla bestiale è fare offesa agli animali. Una crudeltà che impressiona anche le persone oneste, anche gli stessi buoni musulmani.
Ma sono ancora e sempre l’esempio, il coraggio, la testimonianza dei cristiani che disorientano gli integralisti e scardinano ogni spalto “nemico”, dando uno scossone anche alla nostra annoiata indifferenza, secondo quanto ci segnala egregiamente TEMPI. – A Gaza, sempre più musulmani, per sfuggire ai bombardamenti, si rifugiano nella chiesa di san Porfirio. Uno di essi, Mahmoud Khalaf, 27 anni, che mai avrebbe pensato di pregare un giorno sotto un’icona di Gesù, racconta all’Afp: «I cristiani ci lasciano pregare [in chiesa]. Ho cambiato l’idea che mi ero fatta dei cristiani. Prima non li conoscevo davvero, ora sono diventati nostri fratelli. Qui l’amore tra i musulmani e i cristiani sta aumentando». Jalila, una signora cristiana, è morta carbonizzata. Per padre Hernandez, eroico parroco a Gaza, «i missili non fanno favoritismi tra cristiani e musulmani. Questa signora non era una terrorista, non era una minaccia per nessuno». Ha chiuso la sua esistenza dando a tutti un esempio mirabile e invocando l’immediato cessate il fuoco. Le sue ultime parole son state quelle di Giobbe: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore». – In Iraq, una giornalista musulmana, Dalia Al Aqidi, va in onda con la croce al collo contro la persecuzione dei cristiani, lanciando «una campagna di sostegno aperta a tutti». Una sua collega libanese, Dima Sadeq, annuncia il tg indossando, per solidarietà, una t-shirt con la N araba dei cristiani. In un villaggio del nord Iraq, i cristiani perseguitati dalla ferocia disumana del nuovo esercito integralista del “califfo”, all’uscita dalla messa sono accolti da una folla di musulmani che levava questi cartelli: “Siamo tutti cristiani”. Anche nell’apatica Europa, sempre più musulmani onesti giudicano che questa barbarie disumana non onora “il clemente, il misericordioso” e non si concilia col fascino di un Islam moderato. Questo è un Islam che non piace a nessuno e che imploderà nella sua stessa violenza.
Con tutto ciò, anche noi, io, tu, siamo diventati indifferenti a queste sofferenze senza nome. Diciamo la verità: a chi importa veramente dell’uccisione di centinaia di fratelli nostri in Nigeria? La banda jihadista di Boko Haram è ritenuta responsabile dell’uccisione di oltre duemila persone solo quest’anno nella parte nord della Nigeria. A quanti gli importa davvero qualcosa delle centinaia di cristiani di Mosul messi nell’alternativa o di convertirsi, o di pagare una tassa esorbitante, o di fuggire entro 24 ore, o di essere uccisi? E delle centinaia di migliaia di cristiani costretti a fuggire in questi anni dall’Iraq, dalla Siria e da tutto il mondo arabo? La stessa ONU ha mai presentato una risoluzione per loro? C’è da parte di tutti un grande silenzio o comunque un’inazione generali. Allora, per quietare la coscienza abbiamo chiamato questo disinteresse tolleranza. Amici miei, se anche a noi, domani, venissero imposte le alternative date ai cristiani di Mosul, come ce la caveremmo?
Vitale Scanu