Prima del suicidio assistito la Lombardia assicuri il diritto alle cure palliative

Di Caterina Giojelli
29 Ottobre 2024
Per la Consulta sono la priorità assoluta, «la presenza o meno di questo tipo di assistenza può condizionare la scelta dei malati». E sono troppi i cronici complessi che oggi «non ricevono risposta al loro bisogno». L’audizione del medico palliativista Anna Brizio
cure palliative
Il termine cure palliative deriva dal latino “pallium”, che significa “mantello”. Un mantello protettivo che avvolge non solo il malato ma tutta la famiglia (foto Depositphotos)

Mancavano poche ore, e dopo aver regolato la terapia, gli aveva preso la mano per salutarlo: «Signor Giovanni, ha paura?». «No, io non ho paura. Mi sento come quando ero bambino». «Cioè?». «Io ho bisogno di essere consolato». Il signor Giovanni sarebbe mancato di lì a poco, abbracciato dalla compagna e avvolto nel mantello delle cure palliative. Dal latino “pallium”, che significa “mantello”, “protezione”, cioè qualcosa che avvolge tutti i bisogni dell’uomo e dà sollievo: ad Anna Brizio, medico palliativista di un servizio di cure palliative domiciliari a Milano, piace sempre ricordare l’etimologia e quanto le si chiarì tanti anni prima al capezzale di Giovanni: «Il malato ha bisogno di qualcuno con cui stare, da cui essere confortato, consolato. La sua stessa autodeterminazione, la sua libertà di scelta, nasce in una trama di rapporti: sceglie, ma sceglie legato a qualcuno, informato da qualcuno».

Lo ha ribadito in audizione lo scorso 10 ottobre ai consiglieri lombardi riuniti per discutere la pdl dell’Associazione Coscioni sulla morte volontaria medicalmente assistita: lo stesso concetto di “consenso informato” della legge 219/2017 afferma una relazione, è progressivo ed è tanto più consapevole quanto più è basato su una relazione duratura e profonda. La norma stessa definisce il tempo della relazione tra medico e paziente come “tempo di cura”, «in che modo, invece, la tempistica così serrata e ben dettagliata di questa proposta di legge si adegua ai tempi del malato, alla sua dinamica interiore di travaglio e bisogno, speranza e disperazione? Siamo in grado di rispettare il tempo di maturazione di una decisione?».

La vita “fino all’ultimo istante” di Giovanni

Il 10 ottobre scorso sono state ascoltate in Commissione le testimonianze di Anna Brizio, di Elena Polesana infermiera del medesimo servizio, e di Marco Maltoni, professore straordinario di Cure palliative all’Università di Bologna. Tempi ne aveva già parlato qui, raccontando come lo stesso Servizio sanitario regionale – a cui i radicali vorrebbero demandare pieni poteri per aumentare le morti assistite – si fosse unito al coro dei tanti costituzionalisti e penalisti che contestano l’impianto della legge (vedi l’intervento di Zanon, e quelli di Eusebi e Vimercati). Non solo le tempistiche presentate quali fiori all’occhiello dagli autori della pdl non sono realistiche, ma fanno a cazzotti con alcuni dati di letteratura decisivi presentati da Maltoni e verificati dal Ssn stesso con i casi seguiti in Lombardia: dove opportunamente informati sulle cure palliative, circa la metà dei pazienti cambia idea.

Lo abbiamo scritto tante volte: se fosse davvero una questione “di civiltà” o di “morire con dignità”, si tenterebbe qualunque cosa prima di erogare la morte assistita in venti giorni. Se a tema ci fosse davvero il dolore delle persone, la corsa non sarebbe all’eutanasia nel nome della “libertà”, bensì al mettere finalmente in atto ovunque (leggi: finanziare) la legge sulle cure palliative. E invece di celebrare il diritto (tra l’altro mai affermato da Stato o Consulta) a una morte veloce e assistita, celebreremmo la vita fino all’ultimo istante di Giovanni.

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Anna Brizio si era specializzata in ematologia mettendosi al seguito di una medicina con la missione guarire, mandare in remissione leucemie acute, risolvere il problema grazie anche ruolo decisivo del progresso farmacologico. «Di fronte ai fallimenti, alle progressioni delle malattie, mi accorgevo tuttavia che non poteva bastare, era necessario andare oltre l’intento eradicante, anzi, era necessario stravolgere la mentalità. E questo diventava più urgente tanto più era evidente che parallelamente ai progressi di scienza e tecnica sarebbe aumentato il numero dei malati cronici, dei loro bisogni. Oggi che insegno agli studenti di Medicina del terzo anno sono certa che si debba passare da un’idea della medicina come bisogno di salute, guarigione, a una medicina come bisogno di cura: a un sistema sanitario capace di prendersi cura dei bisogni del malato cronico e della sua sofferenza in ogni circostanza. Questo significa formare i futuri medici fin dall’università in primis sul concetto del limite. Abbiamo imparato a schiacciare l’acceleratore, adesso dobbiamo diventare competenti sulla frenata».

Non è tutto bianco e nero, o salute o morte, né tutto ciò che è possibile fare si deve fare con un malato. Le cure palliative hanno aperto una luminosa terza via tra il rischio di abbandono terapeutico (la medicina che depone le armi lasciando il paziente a se stesso) e l’accanimento terapeutico (sottoponendo il paziente a trattamenti invasivi e sproporzionati rispetto ai risultati da ottenere). «Abbiamo preso in carico una donna di 45 anni che per 8 anni era stata seguita da un centro di riferimento oncologico milanese. Ci ha raccontato tra le lacrime che all’inizio era stata considerata un caso “interessante”, tutti si prendevano cura di lei, tra tac, indagini, studi molecolari. Poi, a poco a poco, col tempo e il progredire della malattia, quella cittadella di medici e infermieri all’inizio così serrata attorno a lei si era spopolata».

«Mi sono sentita scaricata. Ero diventata un caso clinico noioso e fastidioso»

«“Mi sono sentita scaricata”, ci ha raccontato la donna, “ero diventata un caso clinico noioso e fastidioso”. Ecco: noi arriviamo proprio in quel momento. Quando il malato non si sente più “degno” di essere oggetto di cura. E ciò che notiamo alla presa in carico è che la sua vera paura non è quella di morire, ma di soffrire profondamente, di essere lasciato solo. Di essere un peso. È lì che ci rendiamo conto che l’uomo può vivere solo nella relazione con l’altro. Questa è la partenza di ogni nostra esperienza umana, pensate ai trattati di neuropsichiatria infantile: tutti i documenti e le pubblicazioni scientifiche dicono questo, nasciamo e cresciamo sani, psicologicamente stabili e competenti alla vita se siamo in relazione con la mamma, se cresciamo in un rapporto, in una comunità. Giovanni quando è morto si sentiva come quando era bambino: “Ho bisogno di essere consolato”».

Non abbandonato. Le cure palliative hanno per molti un significato di resa, “non c’è più nulla da fare”; al contrario, come le definisce la Società europea di cure palliative richiamando colei che le inventò (qui trovate la bella storia della “dottoressa dei miracoli” Cicely Saunders), «sono la cura attiva e globale prestata al paziente quando la malattia non risponde più alle terapie aventi come scopo la guarigione. Il controllo del dolore e degli altri sintomi, dei problemi psicologici, sociali e spirituali assume importanza primaria. Le cure palliative hanno carattere interdisciplinare e coinvolgono il paziente, la sua famiglia e la comunità in generale».

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Non c’è da inventare niente, le cure palliative ci sono: il problema, sottolinea Brizio, è piuttosto che ad oggi non esiste un accesso equo. Non vi è nemmeno una diffusione capillare sul territorio nazionale, nemmeno una conoscenza reale da parte della società, «che si stupisce quando ci incontra. Perfino i sanitari non vengono formati o non ricevono aggiornamenti nel post lauream in materia. Eppure nella sentenza del 2019 la Corte costituzionale le ha definite “una priorità assoluta per le politiche della sanità” e “un prerequisito della scelta di qualsiasi percorso alternativo da parte del malato”. Dobbiamo prendere atto prima di parlare di suicidio assistito che la presenza o meno di questo tipo di assistenza e la sua specialistica realizzazione può condizionare la scelta della persona malata e può risultare elemento determinante tra la vita e la scelta di richiesta di morte. Non dimentichiamoci che c’è una grossa fetta di malati cronici complessi che al momento non ricevono risposta al loro bisogno elevato di assistenza». Lo hanno confermato anche le audizioni di Cereda e Maltoni e lo stesso presidente della Commissione Affari istituzionali Matteo Forte, ricordando che, seppur ancora poco diffuse, le cure palliative rispondono attualmente al bisogno del malato oncologico e con malattia d’organo end stage: non è sulla loro estensione che dovrebbe concentrarsi l’impegno politico e istituzionale?

Anna Brizio non gira attorno al problema: «Nella pdl non si evince quando e come dovrebbero essere consigliate le cure palliative. Al contrario, citando gli hospice tra le strutture deputate a fornire supporto tecnico e farmacologico al suicidio assistito (art. 5), sembra equivocare completamente il compito di cure il cui scopo non è quello di accelerare o differire la morte, ma quello di preservare la migliore qualità di vita possibile fino alla fine: “Tu sei importante perché sei tu, e sei importante fino all’ultimo momento della tua vita. Faremo ogni cosa possibile non solo per permetterti di morire in pace, ma anche per farti vivere fino al momento della tua morte”, diceva Cicely Saunders».

Nella burocrazia della legge proposta non c’è posto per l’uomo

Non mancano problemi all’articolo 3 (il più demolito dai giuristi e medici in Commissione): «Come è già stato detto, è opportuno rivedere la composizione dei comitati etici territoriali che al momento non hanno una competenza in tema di suicidio medicalmente assistito, occupandosi di trial clinici e dei diritti dei malati coinvolti in una sperimentazione clinica».

A questo proposito, ha concluso Brizio richiamando gli appelli del Cortile dei Gentili a non trasformare la normazione giuridica del suicidio assistito “in una forma di burocratico abbandono della persona alla sua disperazione”, «invito con forza a non consegnare la valutazione del malato e della sua sofferenza a relazioni cliniche, a documenti migrati da una commissione a un’altra. Tale valutazione va affidata ancora una volta nel contesto di una relazione di cura. Chi si “china” sul malato e rileva la sua sofferenza? Chi entra in casa sua, in casa dei Giovanni, e comprende il contesto in cui vivono? Ribadisco, evitiamo di affidare un momento così solenne, nodale, a una macchina a ingranaggi, seppur ancora così ben scanditi temporalmente ma dentro i quali non può collocarsi la materia di cui ci dobbiamo occupare: l’uomo».

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