Non trasformate il Ssn in un servizio di morte assistita

Di Caterina Giojelli
21 Ottobre 2024
Escludere in casi particolari la punibilità dell’aiuto al suicidio non configura il diritto a morire tramite servizio sanitario: il suicidio assistito non è un’alternativa alle cure palliative. Le audizioni in Lombardia del penalista Eusebi e della costituzionalista Vimercati
La proposta di legge regionale dell’Associazione Coscioni si fonda sull’equivoco che la Consulta abbia sancito un diritto a morire tramite prestazione del Ssn
La proposta di legge regionale dell’Associazione Coscioni si fonda sull’equivoco che la Consulta abbia sancito un diritto a morire tramite prestazione del Ssn (foto Depositphotos)

Nessuna Regione ha il potere di legiferare in tema di «aiuto al suicidio», né di assumere in materia di suicidio assistito una funzione di “completamento” dell’assetto normativo derivato dalle leggi dello Stato e dalle pronunce della Corte costituzionale.

«In materia penale, infatti, la riserva è assoluta», spiega il noto penalista Luciano Eusebi ai consiglieri lombardi, ricordando che è di questo che stanno parlando mentre discutono la proposta di legge dell’Associazione Coscioni sul suicidio assistito: dell’oggetto di una norma penale coperta da riserva assoluta di legge. Ciò significa che, al contrario di quanto è possibile in materia civile o amministrativa, qui modifiche all’ambito applicativo possono essere determinate solo dal legislatore statale o dalla Consulta. Nemmeno l’“inerzia” del parlamento potrebbe mai fondare «una competenza regionale per “sussidiarietà”, o comunque sostitutiva a quella dello Stato».

«No a un modello di Ssn che assiste il malato e al contempo il suicidio»

Continuano le audizioni in Commissione Affari istituzionali e Sanità di Regione Lombardia sulla pdl dei radicali, e sono sempre di più gli esperti di diritto a condividere le preoccupazioni di costituzionalisti del calibro di Nicolò Zanon, giudice emerito della Consulta («Non varcate il Rubicone sul fine vita»). Non manca, Eusebi, ordinario di Diritto penale all’Università Cattolica di Milano, di richiamare in audizione il parere dell’Avvocatura Generale dello Stato (che ha già acclarato, su richiesta del Veneto, come non spetti alle Regioni legiferare in materia), e insistere sull’estrema importanza di «non oltrepassare i confini segnati dalla Corte costituzionale in tema di “aiuto al suicidio” anche con riguardo al ruolo del Servizio Sanitario Nazionale (Ssn)».

Si tratta per il professore di «evitare che venga proposto all’opinione pubblica un modello di un Ssn presso il quale, parallelamente, alcuni malati sono assistiti sul piano terapeutico e palliativo mentre altri, nelle medesime condizioni, sono aiutati a porre termine alla loro vita: come se si trattasse di percorsi ordinari fra loro alternativi. È per questo che la Corte Costituzionale non ha affidato alle strutture sanitarie del Ssn alcun compito di esecuzione delle procedure volte ad agevolare “l’esecuzione del proposito di suicidio”, affidando piuttosto a “una struttura pubblica del Ssn” la verifica dell’effettivo sussistere dei requisiti».

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«La morte assistita non è un binario parallelo a quello della palliazione»

Questi luoghi dovrebbero per Eusebi restare «ben distinti» da quelli in cui si organizza ed eroga la morte assistita: chiara è a questo proposito l’indicazione della Corte quando afferma che la sua «declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’“aiuto al suicidio” nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale “aiuto” in capo ai medici», rimanendo «affidato alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato».

Quanto all’impegno profuso da radicali e consiglieri per dare seguito alle indicazioni della sentenza 242/2019, ebbene la precondizione fissata dai giudici riguarda la possibilità del malato in primis di accedere e disporre delle cure palliative (“un prerequisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente”) ed è piuttosto sulla garanzia dell’accesso a tali cure che per Eusebi «dovrebbe incentrarsi lo stesso impegno normativo regionale in favore dei malati affetti da patologie gravi». Di più: per il penalista andrebbe proprio «evitata qualsiasi formulazione estensiva rispetto ai requisiti richiesti dalla Corte Costituzionale onde escludere la punibilità ex art. 580» e lasciare questa a situazioni del tutto particolari (meglio, eccezionali), «così che non si pervenga a istituire una sorta di secondo binario parallelo, rispetto a quello terapeutico e palliativo, dell’approccio verso gli stati di malattia grave o, comunque, verso la fase della vita che si avvicina al momento della morte».

Dall’enfasi sul “diritto a morire” al “dovere morale” di morire

Un secondo per non non dire il primo binario: nessuno può non confermare come l’enfasi sul “diritto di morire” – che trova oggi ampio supporto nei principali media – «possa trasformare il medesimo in una sorta di “dovere morale di morire”: ciò in quanto la prospettazione di un’alternativa ordinaria, per la persona seriamente malata, tra il porre immediatamente termine alla propria vita tramite un intervento esterno e il continuare a beneficiare di risorse medico-assistenziali rischia di far sì che questa seconda opzione si trasformi in una sorta di (costosa) pretesa soggettiva nei confronti delle pubbliche istituzioni, comportando un’implicita “colpevolizzazione” di chi la compie e dei suoi congiunti».

Un rischio dal quale mette in guardia la stessa Corte Costituzionale nonché la cronaca paesi più progressivamente aggiornati in materia (vedi Canada, Olanda, Belgio): «Non può non considerarsi con grande attenzione, in ogni caso, il fatto che a monte delle discussioni sulle normative di fine vita si celano facilmente anche considerazioni di ordine economico (…) la grande cautela nel delineare atti di anticipazione della morte non dipende da apriorismi di carattere conservatore, ideologico o religioso, bensì dall’intento di far salva la miglior attuazione possibile del principio solidaristico, in quanto cardine della nostra Costituzione», conclude Eusebi.

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Così la pdl dei radicali stravolge la sentenza della Corte

Contro la “Babele sanitaria” prefigurata dalla proposta di legge dell’Associazione Coscioni si è schierata anche Benedetta Vimercati, professore associato di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano. Che in Commissione ha ribadito con forza quanto già sostenuto dalla maggior parte dei colleghi: al netto della confusione generata dalla procedimentalizzazione che coinvolge il Servizio sanitario, la Consulta si è limitata a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio, non ha affermato un diritto a morire e nemmeno un diritto farlo attraverso una prestazione erogata dal Ssn. Al contrario, il testo della pdl dei radicali che si picca di dare seguito alle indicazioni della Consulta, è «costellato da una serie di indicazioni agli articoli 1, 3, 4 e 5 che configurano un vero e proprio “diritto all’erogazione della prestazione”, e non si limitano alla presa in carico della verifica dei requisiti dettati dalla Consulta. Una vera e propria prestazione che il diritto Sanitario Nazionale sarebbe in dovere di erogare gratuitamente fino alla fornitura del farmaco, del macchinario e dell’assistenza medica all’assunzione».

Tempi ha già raccontato qui perché l’impianto della proposta di legge, dalle tempistiche alla composizione fino ai compiti degli enti coinvolti, non sta in piedi, a testimoniarlo lo stesso Servizio sanitario regionale a cui i radicali demandano pieni poteri per aumentare le morti assistite. Ma è già dall’articolo 1, comma 2, quando si scrive che «il diritto all’erogazione dei trattamenti disciplinati dalla presente legge è individuale e inviolabile e non può essere limitato, condizionato o assoggettato ad altre forme di controllo» che per Vimercati la traiettoria della legge esce subito dal perimetro delineato dalla Consulta, stravolgendone il pronunciamento e «rischiando di entrare in collisione con altri spazi di competenza legislativa».

Il rischio di una disciplina «differenziata di beni fondamentali ed essenziali»

Definire una vera e propria esistenza del diritto alla prestazione «non inciderebbe solo nel rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione, ma inciderebbe anche orizzontalmente nei rapporti con altri soggetti, innanzitutto con il personale medico. Interferendo, in questo caso, con una competenza esclusiva del legislatore statale sull’ordinamento civile, nell’ambito del quale è lo Stato ad occuparsi della disciplina dei rapporti, compreso quello tra medico e paziente, ed eventualmente con la possibilità di previsione di obiezione di coscienza».

Senza contare poi il rischio di dare origine a una disciplina «differenziata sul territorio nazionale di beni fondamentali ed essenziali». Anche Vimercati, come Zanon, ricorda le sentenze della Corte sulla legge del 2016 del Friuli Venezia Giulia in tema di Dat e del 2008 del Piemonte sulla somministrazione di sostanze psicotrope ai minori, entrambe dichiarate incostituzionali. E sottolinea problematiche di merito in tutto il testo, «non solo nel riparto delle competenze, ma fin dalla definizione della composizione stessa delle Commissioni deputate a verificare i requisiti fissati dalla Consulta» che potrebbero differire in organizzazione e criteri in ogni regione.

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Il nodo delle cure palliative, assorbite in un inciso

Non si comprendono inoltre «i confini della discrezionalità con cui la Commissione potrebbe integrare la sua composizione», le «tempistiche contingentate», dalla verifica dei requisiti all’erogazione del farmaco, e le conseguenze del rispetto del diritto fondamentale all’autodeterminazione del paziente che stano alla legge «”può decidere in ogni momento di sospendere, posticipare o annullare l’erogazione del trattamento”. E se cambia di nuovo idea? Ricomincia il processo di valutazione?». Non si tratta appena di «tematiche di dettaglio che non toccano i diritti fondamentali, c’è un problema di completezza», sottolinea Vimercati.

In un testo che ha già il problema di usare «termini perentori», da legge statale, manca infine, nota anche Vimercati, «un riferimento esplicito alle cure palliative, che restano assorbite in un inciso all’art. 3, comma 4: “In caso di rifiuto delle cure con sedazione profonda continuativa e di ogni altra soluzione praticabile…”. Sarebbe sufficiente questo per concretizzare il prerequisito richiesto dalla sentenza della Consulta? Rientra nella competenza della Regione definire come si concretizzi questo prerequisito che la Corte ritiene essenziale insieme agli altri che ha disciplinato nella sua pronuncia per poter delineare la clausola di non punibilità?». Sono solo alcuni degli interrogativi sollevati dalla proposta dei radicali. E che sempre più giuristi rivolgono ai consiglieri: davvero la Lombardia vuole diventare la prima Regione a spingere la legge fino a normare quella “zona grigia” che è il passaggio ultimo dell’esistenza?

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