Fine vita, i numeri (e i pazienti) smontano la legge dei radicali
L’impianto che i radicali vorrebbero propinare ai lombardi per accedere al suicidio assistito non sta in piedi. E questa volta non sono i costituzionalisti ad ammonire gli autori di una proposta di legge che ha tutte le caratteristiche per portare al conflitto Stato-Regioni, ma lo stesso Servizio sanitario regionale a cui i radicali demandano pieni poteri per aumentare le morti assistite.
Un Servizio che si occupa già dell’accertamento preventivo dei quattro requisiti di liceità del suicidio assistito come da sentenza della Corte. E che all’esame delle Commissioni Affari istituzionali e Sanità della Lombardia dello scorso 23 settembre si è rivelato un testimone decisivo: non solo le tempistiche presentate quali fiori all’occhiello dagli autori della pdl non sono realistiche, ma fanno a cazzotti con alcuni dati di letteratura decisivi (li presenterà anche il prof. Marco Maltoni, tra i più importanti medici palliativisti italiani e docente di Cure palliative a Bologna, in audizione il 10 ottobre) e verificati dal Ssn stesso con i casi seguiti in Lombardia: circa la metà dei pazienti a due mesi dalla presentazione della richiesta di morte assistita cambia idea.
I radicali vogliono il fine vita in venti giorni
Ora, cosa dice la pdl proposta dall’Associazione Luca Coscioni? Il disegno vuole definire «procedure e tempi del Servizio sanitario nazionale/regionale di verifica delle condizioni e delle modalità di accesso alla morte medicalmente assistita». Stabilisce che le Asst debbano costituire una «Commissione medica multidisciplinare permanente» per la verifica dei requisiti (irreversibilità, sostegno vitale, situazione intollerabile per il paziente, capacità di intendere e di volere). E che la Commissione (di cui è stabilita anche la composizione) completi tale verifica entro venti giorni dalla presentazione della richiesta al suicidio assistito alla azienda sanitaria territoriale.
La tabella di marcia è la seguente: l’Asst ha massimo quattro giorni per convocare la Commissione. La Commissione ha al massimo otto giorni per fare le verifiche e trasmettere gli esiti al Comitato etico territorialmente competente. Il Comitato ha cinque giorni per trasmettere alla Asst il suo parere. La Asst ha tre giorni per comunicare le risultanze al malato. Entro sette giorni, in caso positivo, si dovrà erogare il suicidio assistito.
In un anno e mezzo dieci richieste, una sola oncologica
Una follia. Danilo Cereda, della direzione generale Welfare preposta al compito di governare il Sistema sociosanitario lombardo, non lo dice, ovviamente, ma se possibile fa di più. Racconta come la direzione ha ottemperato al “diritto sancito dalla sentenza” fino alla fase della valutazione (in mancanza di una legge statale il Sistema sanitario regionale non ha le competenze per spingersi oltre) delle dieci richieste che sono pervenute alle aziende sanitarie territoriali. Dieci in un anno e mezzo su 27 Asst: due casi di Sla, tre di sclerosi multipla, un caso di sindrome dolorosa cronica, una patologia irreversibile (un tumore), un parkinsonismo atipico, una fibrosi polmonare idiopatica, un caso di cui non è stata riportata la casistica. Otto donne su dieci. Cinque casi tra i 50 e i 59 anni, due casi tra i 60 e i 69, un caso tra 70 e i 79, due casi tra 80 e 89 anni.
Cereda sottolinea che non viene presa in carico “la richiesta”, come se si dovesse espletare una procedura, ma “la persona”. Chi è il riferimento? Le Asst (dove è presente il servizio di medicina legale) che vista l’esiguità delle richieste pervenute hanno ad oggi potuto coinvolgere «i professionisti più esperti e più capaci». Che non si sono adoperati nell’esecuzione di una “prassi” ma si sono dedicati a ciascun paziente. In primis verificando, insieme ai requisiti delineati dalla sentenza, la capacità reale di offerta della rete assistenziale, dall’offerta di cure palliative alle terapie del dolore.
«Non meno di 90 giorni. Non è una “prassi”, sono persone»
La Commissione composta da tali esperti, in linea con le direttive espresse dal Comitato nazionale di bioetica, ha coinvolto specialisti diversi in base alla patologia del paziente fino a concludere il percorso di valutazione da inviare al Comitato etico territoriale. La tempistica? È stata identificata in 90 giorni, in base anche alla normativa italiana (legge 241 del 1990).
E del resto, spiega Cereda, non potrebbero essere di meno: «Stiamo parlando di una serie di patologie per cui fare una valutazione di questo tipo non è banale o semplice; bisogna identificare i professionisti, fare in modo che trovino il momento corretto di visita al paziente, bisogna capire dove vuole essere visitato […] la logistica dei tempi non è facilissima». E nemmeno la procedura: «C’è una valutazione con una persona che a volte non ha avuto la piena contezza di tutte quelle che sono le varie possibilità che il Servizio sanitario regionale offre. Quindi c’è anche il momento per questa persona di riflettere, di pensare, capire che magari alcune terapie palliative possono essere cambiate oppure che ha altre possibilità, come, in alcuni casi, il percorso dell’hospice. In alcuni casi c’è proprio un momento di raccordo col paziente: 90 giorni ci sembrava un tempo adeguato a garantire questo percorso».
Vogliono il suicidio assistito, poi “scoprono” e chiedono le cure palliative
Novanta giorni contro gli otto rivendicati dai radicali. E cosa è successo nei dieci casi? Solo in tre casi su dieci le quattro condizioni della sentenza sono state riscontrate positivamente. In due casi la valutazione ha dato esito negativo. Negli altri casi la Commissione ha verificato la volontà del richiedente di adottare altri percorsi, in particolare le cure palliative. In un caso il paziente non era più reperibile.
Ai consiglieri che hanno definito “vano” il lavoro della Commissione se non c’è modo di spingersi fino all’erogazione del suicidio assistito, Cereda ha risposto con forza, e da medico, difendendo il valore aggiunto dell’operato della Commissione laddove è stato possibile garantire ai pazienti percorsi «di cui prima probabilmente non avevano ricevuto una piena informazione. […] Per quelle tre persone che hanno scelto un altro percorso questa valutazione è stata di un valore enorme perché ha permesso di accompagnarle nel periodo più difficile della loro vita, nel periodo terminale, attraverso un accompagnamento che hanno scelto loro. Quindi direi che questa valutazione ha un valore importantissimo».
Maltoni contro i tempi dei radicali: «Metà dei pazienti cambia idea in due mesi»
I numeri smontano l’ideologia. E ribaltano le priorità. Come ha sottolineato Matteo Forte, presidente della Commissione Affari istituzionali richiamando i numeri di Cereda, «su dieci richiedenti solo uno è oncologico, gli altri hanno diversi tipi di patologie. Questo è interessante, perché le cure palliative sono soprattutto sviluppate proprio in ambito oncologico. Quindi, mi chiedo se l’estensione della terapia del dolore anche ad altre patologie non possa contribuire a diminuire il senso di abbandono e la richiesta di suicidio assistito anche negli altri casi. Del resto, su dieci persone che hanno fatto richiesta, ben tre, in un dialogo con l’équipe e gli specialisti che hanno preso in carico la loro domanda, hanno cambiato idea scegliendo di affidarsi proprio alle cure palliative. Siccome un punto fondamentale della sentenza n. 242 del 2019 le ritiene un pre-requisito prima di ogni altra scelta alternativa, è proprio su questo che come Servizio sanitario regionale possiamo e dobbiamo insistere».
Una conferma decisiva in questo senso è arrivata il 10 ottobre durante l’audizione del professor Marco Maltoni. Il quale, dopo aver passato in rassegna le enormi criticità aperte sul piano medico dall’articolo 3 della pdl (composizione della Commissione, totale incertezza sul compito della stessa di proporre le cure palliative, inserimento degli hospice nei luoghi di erogazione del suicidio assistito) ha smontato l’articolo 4 criticando l’eccessiva rapidità dell’iter con i dati di letteratura internazionale, in particolare quelli che attestano che «circa la metà dei pazienti cambiava idea in due mesi dalla presentazione della richiesta del suicidio assistito. La instabilità della decisione era particolarmente collegata con la presenza di depressione».
«Dove c’è una legge sul fine vita aumentano tutti i suicidi»
Uno studio in Oregon, ha continuato il professore, sulle richieste di eutanasia e suicidio assistito, ha dimostrato che il 46 per cento di pazienti che ricevette buone cure palliative cambiò idea sulla morte assistita (ma anche il 15 per cento che non fece ricorso alla palliazione). Alla base della pdl non c’è affatto l’idea che questa sia «una triste ultima spiaggia per problemi drammatici»: al contrario, a sentire i promotori della legge, pare che un paese sia tanto più civile quanti più suicidi ponga in essere, «giungendo addirittura al 6 per cento di morti assistite come in Olanda».
Da ultimo, Maltoni ha smentito con evidenze numeriche e grafici tutta la propaganda sulla proposta di legge: l’epidemiologia della morte assistita «mostra un netto sbilanciamento verso la scarsa cautela dei fragili e un aumento complessivo dei sucidi (non “sostituzioni” ma “addizioni”) con enorme evidenza dalla pressione sociale che si instaura. Inoltre l’introduzione di eutanasia e suicidio assistito non ha affatto influenzato l’andamento dei suicidi non assistiti, come alcuni promotori della legge affermano. Il numero totale dei sucidi (assistiti e non) nei paesi in cui il suicidio assistito è stato legalizzato è andato grandemente aumentando (alcuni autori hanno addirittura parlato di “contagio suicidario”). In Olanda la slippery slope (il piano inclinato) ha condotto addirittura a discutere una proposta di legge su “suicidio assistito per vita completata”». Requisiti richiesti? Solo due: 75 anni e volontà di morire.
Con le cure palliative «la richiesta di suicidio assistito si riduce di dieci volte»
Tempi ha documentato più volte la situazione aperta dalla legalizzazione della morte assistita in Olanda, Belgio, Canada, nonché gli appelli dei maggiori esperti mondiali a investire sulle cure palliative perché il suicidio assistito non diventi una «scorciatoia per porre fine alla sofferenza».
Da Eduardo Bruera, numero uno al mondo sulle cure palliative («Si può fare moltissimo per alleviare la sofferenza. E si risparmia») fino a Gianpiero Dalla Zuanna, autore insieme ad Asher D.Colombo di uno studio, Data and Trends in Assisted Suicide and Euthanasia, and Some Related Demographic Issues, che dimostra che «dove vengono messe in atto le cure palliative, il ricorso al suicidio assistito o all’eutanasia cala drasticamente. Si ricorre a questa pratica per non soffrire: se si toglie il dolore, la richiesta si riduce di dieci volte. La popolazione non è tanto favorevole all’eutanasia per esercitare un diritto, quanto piuttosto per porre fine a delle sofferenze. Ed è così in tutto il mondo occidentale».
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