Cosa succederà se la Lombardia aiuterà i suoi malati a morire
In questi giorni si stanno svolgendo le audizioni sulla proposta di legge di iniziativa popolare dell’Associazione Luca Coscioni sul suicidio medicalmente assistito in Regione Lombardia. Pubblichiamo l’intervento di don Alberto Frigerio, professore incaricato di Etica della vita presso l’Issr di Milano, membro del Consiglio scientifico del Veritas Amoris Project (dal 2020) e editorial member dell’American Journal of Health Research (dal 2024).
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Nel mio intervento intendo avanzare due notazioni sulle ricadute civili correlate agli ordinamenti giuridici favorevoli alla pratica eutanasica e suicidaria assistita. La prima notazione riguarda il fatto che l’adozione di leggi favorevoli all’eutanasia e al suicidio assistito provoca stigma sociale verso la vita provata da patimenti, tanto più nell’odierna società consumistica, che funziona nella logica dell’utile e dilettevole. È quanto segnalò Cicely Saunders, iniziatrice dell’Hospice Movement:
«Dovesse passare una legge che permettesse di portare attivamente fine alla vita su richiesta del paziente, molte delle persone “dipendenti” sentirebbero di essere un peso per le loro famiglie e la società e si sentirebbero in dovere di chiedere l’eutanasia. Ne risulterebbe come conseguenza grave una maggiore pressione sui pazienti vulnerabili per spingerli a questa decisione privandoli così della loro libertà» (Lettera del 1993).
Il motivo è che il contesto socioculturale, connotato da precisi costumi e rappresentazioni del mondo, influenza la percezione che il soggetto ha di sé e della realtà, come evoca Thomas Mann: «L’uomo non vive soltanto la sua vita personale come individuo singolo, ma, consapevolmente o inconsapevolmente, vive anche quella della sua epoca e del suo ambiente»1.
Ora, tra i dispositivi più rilevanti nel plasmare i costumi sociali ergo la concezione che il soggetto matura, si annovera la legge, in quanto
«le leggi statali, oltre a essere permissive o restrittive, sono espressive: cioè, oltre a permettere o vietare un comportamento, esprimono una visione delle cose»2.
Eutanasia pietistica, eutanasia utilitaristica
Le considerazioni svolte consentono di enucleare la correlazione tra eutanasia pietistica, che pone al centro la volontà del singolo, il quale per suo volere viene soppresso per porre termine ai patimenti, e utilitaristica, che pone al centro il progetto dello Stato, che si reputa autorizzato a sacrificare la vita di alcuni per un supposto bene collettivo. Nell’antichità prevale l’accezione utilitaristica, come testimonia Platone:
«Introdurrai nello Stato la medicina nella forma che si è descritta, cosicché insieme ti curino quei cittadini che hanno una sana costituzione e, quanto agli altri, lascino morire gli individui che sono portatori di tare fisiche e addirittura sopprimano di prima mano quelli che hanno malattie psichiche ereditarie e incurabili»3.
Nella modernità prevale l’accezione pietistica, come testimonia Thomas More:
«Se il male non solo è inguaribile, ma dà al paziente di continuo sofferenze atroci, allora sacerdoti e magistrati, visto che è inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri e gravoso a se stesso, sopravvive insomma alla propria morte, lo esortano a non porsi in capo di prolungare quella peste funesta, e giacché la sua vita non è che tormento, a non esitare a morire; anzi fiduciosamente si liberi lui stesso da quella vita amara come da prigione o supplizio, ovvero consenta di sua volontà a farsene strappare dagli altri»4.
Il lemma eutanasia compare con Francis Bacon, che lo introduce nel lessico medico in riferimento all’intervento che renderebbe dolce il morire:
«Io ritengo che dovere del medico non sia solo di restituire la salute, ma anche di alleviare sofferenze e dolori, e non solo quando tale sollievo può condurre alla guarigione, ma anche quando può servire a un felice e sereno trapasso. Che non è piccola felicità quella che Cesare Augusto soleva augurarsi, l’eutanasia… Viceversa i medici si fanno una sorta di scrupolo e di religione di non intervenire più sul paziente quando hanno dichiarato inguaribile la malattia, mentre a mio modo di vedere non dovrebbero escludere nessuna possibilità e insieme dare l’assistenza atta a facilitare e rendere meno gravi le sofferenze e l’agonia della morte»5.
Infine, nel Ventesimo secolo l’istanza eutanasica riemerge per motivi utilitaristici nei sistemi totalitari (l’Operazione T4 nazista soppresse 90 mila soggetti affetti da disabilità mentali e patologie genetiche) e per motivi pietistici nelle moderne democrazie liberali (diversi sono i paesi occidentali in cui sono in vigore leggi che legittimano forme di eutanasia e suicidio assistito).
Se possiamo disporre della vita umana «tutto va a rotoli»
Ora, la predetta riflessione inerente allo stigma sociale prodotto e indotto da un ordinamento giuridico favorevole all’eutanasia e al suicidio assistito comprova la connessione tra eutanasia pietistica e utilitaristica: leggi favorevoli a tali pratiche promuovono l’idea secondo cui una vita segnata da patimenti non sarebbe degna di essere vissuta. Lo comprova il caso belga e olandese, in cui l’ammissione di eutanasia e suicidio assistito per casi speciali ha aperto all’inclusione di situazioni sempre più diffuse, nella logica del piano inclinato (slippery slope)6.
Come disse Romano Guardini nel 1947, in occasione del dibattito sul disegno di legge sull’aborto procurato in discussione al Bundestag:
«Non appena in cose di tal genere viene a mancare il principio assoluto, e al suo posto subentra un giudizio pratico di utilità o danno, tutto va a rotoli. Può venire proclamata un’indicazione dopo l’altra, con una quantità di argomenti molto convincenti»7.
L’osservazione vale anche per l’eutanasia e il suicidio assistito, in quanto il principio che viene meno è lo stesso, l’indisponibilità e inviolabilità della vita umana, bene primario, presupposto di ogni altro bene, inclusa la libertà, che per non ritorcersi contro se stessa deve prendersene cura responsabilmente.
La libertà non è assoluta ma seconda e relativa alla vita
La libertà non è assoluta ma seconda e relativa alla vita, di cui è chiamata a prendersi cura per il proprio stesso bene. In tal senso, il divieto di eutanasia e suicidio assistito non è una forma d’ingiustizia o limitazione della libertà ma di tutela e difesa del soggetto medesimo, in specie nelle situazioni di fragilità e vulnerabilità. Anche perché non è la vita colpita da dolore e sofferenza a essere indegna bensì il dolore e la sofferenza sono indegni della vita, motivo per cui si deve rifiutare l’eutanasia e il suicidio assistito e si deve promuovere ogni aiuto umanamente e tecnicamente possibile per il paziente.
Prima di muovere alla seconda notazione, intendo avanzare un notabene, per evitare di dare adito a incomprensioni: il divieto di sopprimere la vita rende illeciti l’eutanasia e il suicidio assistito senza tuttavia comportare l’obbligo di allungarla indiscriminatamente, pena incorrere nell’accanimento terapeutico, che si verifica nel caso in cui l’uso in situazione dei mezzi di conservazione della salute e vita risulta sproporzionato, ovvero clinicamente futile e/o soggettivamente gravoso. Se è doveroso curare la salute e la vita coi mezzi che hanno una certa probabilità di successo e non causano grave onere al malato, l’obbligo decade per l’uso di mezzi che hanno bassa possibilità di successo e/o sono gravosi.
Non esiste il diritto di morte. Il diritto tutela un bene. La morte è la fine di ogni bene
La seconda notazione riguarda la nozione di diritto di morte, sovente evocata dai promotori dell’eutanasia e del suicidio assistito. Invero, tale nozione è erronea, in quanto il diritto è tale se tutela un bene. Ora, la morte sancisce la fine di ogni bene. Al contrario, il cardine dell’ordinamento giuridico è il diritto alla vita, in quanto ogni diritto è espressione delle capacità implicite nell’esistenza umana.
In tal senso, disposizioni giuridiche che avallano l’eutanasia e il suicidio assistito sono inique e minano la giusta convivenza sociale, come segnala la lettera Samaritanus bonus:
«Sono gravemente ingiuste le leggi che legalizzano l’eutanasia o quelle che giustificano il suicidio e l’aiuto allo stesso. Tali leggi colpiscono il fondamento dell’ordine giuridico: il diritto alla vita, che sostiene ogni altro diritto, compreso l’esercizio della libertà umana… Una società merita la qualifica di “civile” se la solidarietà è fattivamente praticata e salvaguardata come fondamento della convivenza» (n. 5,1).
Nelle fasi critiche della vita non si tratta d’introdurre un supposto diritto alla morte bensì di potenziare il fattivo diritto alla cura, che è espressione del fondamentale diritto alla vita. Diritto alla vita che costituisce peraltro il presupposto delle dottrine filosofico-politiche alla base delle moderne democrazie liberali, secondo cui lo Stato deve tutelare la vita degli individui dall’eventuale minaccia altrui (contrattualismo hobbesiano) ed è limitato dai diritti fondamentali della persona, che non deve conferire bensì riconoscere e garantire (costituzionalismo lockeano).
Il diritto a rifiutare i trattamenti non è diritto all’eutanasia
L’indagine relativa al supposto diritto di morte urge un’ulteriore considerazione relativa al diritto a rifiutare i trattamenti, garantito dalla Costituzione (artt. 2, 13, 32). Sovente i fautori dell’eutanasia e del suicidio vi fanno ricorso per giustificare il diritto di morte. L’operazione è però fallace, in quanto il diritto a rifiutare i trattamenti, introdotto per ovviare al paternalismo medico e per evitare abusi nella pratica medica, si riferisce a condizioni particolari, fuori dalle quali non è lecitamente praticabile, come attesta il fatto che non è esercitato se si rimuovono le cause (es. dolore fisico), se il paziente è in pericolo di vita (es. trasfusioni in testimoni di Geova) o se non è in grado di provvedere a se stesso (es. trattamento sanitario obbligatorio).
In tal senso, il diritto a rifiutare i trattamenti fa perno più sulla situazione che sulla volontà, che è condizione necessaria ma non sufficiente per l’esercizio di tale diritto. Inoltre, il rifiuto dei trattamenti, con cui il soggetto si lascia morire (es. paziente con insufficienza renale che si rifiuta di sottoporsi a dialisi), può essere moralmente sbagliato e non condivisibile ma va comunque distinto dall’eutanasia e dal suicidio assistito, in quanto la morte è provocata dalla patologia in corso e non dal medico né dal paziente con l’ausilio medico.
«Se curato con amore e senza dolore, il paziente non chiederà la buona morte»
In conclusione, l’atroce problema del dolore e della sofferenza correlati alla malattia e alla morte che incombe non trova soluzione nella pratica eutanasica e suicidaria assistita bensì nell’assistenza competente e solidale al malato, di cui si avverte urgente bisogno nel tempo presente, a motivo dell’ingresso della tecnologia nella pratica medica, che guarisce e fa vivere di più facendo altresì convivere più a lungo con malattie e disabilità, e della solitudine dilagante, che è correlata all’odierna mentalità individualistica e al progressivo erodersi della realtà familiare.
In questo contesto traspare il valore delle cure palliative, preposte a operare un’azione di cura integrale, volta a controllare i sintomi fisici (dolore), psicologici (ansia, depressione, angoscia), spirituali (disperazione) e sociali (deterioramento dei rapporti umani), secondo un modello «biopsicosociale-spirituale» in cui «trovano spazio non parti separate della realtà umana da suddividere tra specialisti, ma dimensioni distinte sempre presenti e intercorrelate nell’interezza della persona»8.
Da ultimo, le suppliche dei malati gravi sono quasi sempre richieste angosciose di aiuto e affetto, e anche l’eventuale domanda di eutanasia e suicidio assistito è sovente dettata dal dolore non gestito e dalla mancanza di assistenza, come asserì Umberto Veronesi, che pure si diceva favorevole all’eutanasia e al suicidio assistito:
«Se è curato bene, difficilmente il paziente chiede di morire. Se è curato con affetto, con amore, senza dolore, non chiederà la buona morte»9.
1 T. Mann, La montagna incantata, Vol. I, Dall’Oglio, Milano 1930, 38.
2 A. Rodríguez Luño, La cultura della vita come compito sociale e comunicativo, in Id., «Cittadini degni del vangelo» (Fil 1,27). Saggi di etica politica, Edusc, Roma 2005, 61-74: 69.
3 Platone, Repubblica 410a.
4 T. More, De Optimo Reipublicae Statu, Deque Nova Insula Utopia 2,5.
5 F. Bacon, The Advancement of Learning, Clarendon, Oxford 1876, 140.
6 Cfr. W.J. Eijk, Dying (and living) with dignity, in W.J. Eijk – L.M. Hendriks – J.A. Raimakers – J.I. Fleming (ed.), Manual of Catholic Medical Ethics, Connor Court, Ballarat 2014, 493-526: 560-561. E. Montero, The Belgian Experience of Euthanasia Since Its Legal Implementation in 2002, in D.A. Jones – Ch. Gastmans – C. MacKellar (ed.), Euthanasia and Assisted Suicide. Lessons from Belgium, Cambridge University, Cambridge 2018, 26-48.
7 R. Guardini, Das Recht des werdenden Menschenlebens, § 2.
8 D. Sulmasy, A biopsychosocial-spiritual model for the care of patients at the end of life, «The Gerontologist» 42 (2002) 24-33: 29.
9 U. Veronesi, Da bambino avevo un sogno, Mondadori, Milano 2002, 119.
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