Eutanasia, il volto “umano” della Nuova Zelanda
Col peggiorare della malattia «mia madre è cambiata radicalmente rispetto alla leader maori appassionata e forte che era. Ieri sera ho parlato con i leader maori più importanti del paese. Nessuno di loro pensava che l’eutanasia fosse un suicidio. Tutti pensavano che eutanasia fosse morire con dignità. Ed erano stufi di sentir dire che la morte assistita sarebbe contraria alla nostra cultura». Dopo quattro anni di dibattito e dichiarazioni, non da ultima questa del deputato laburista Willie Jackson, portavoce della grande minoranza maori, il 13 novembre il parlamento della Nuova Zelanda ha approvato in via definitiva una proposta di legalizzazione e regolamentazione dell’eutanasia. Proposta che per diventare legge dovrà essere sottoposta a referendum popolare nel 2020, cioè in concomitanza con quello per la legalizzazione della cannabis e le elezioni politiche.
UNA SOCIETÀ PIÙ “UMANA”?
A centinaia si sono radunati a Wellington per contestare la norma arrangiata dopo migliaia di audizioni e il maggior numero di proposte di emendamenti (oltre 100) ricevuti nella storia parlamentare della Nuova Zelanda. A nulla sono valse le obiezioni del deputato del partito nazionale Alfred Ngaro che sottolineava come il 90 per cento dei protagonisti del dibattito e soprattutto dei medici nel paese risultasse contrario all’eutanasia: «Hospice e associazioni di assistenza al fine vita si oppongono a questo disegno di legge in quanto lo giudicano pericoloso. Non possono essere ignorati». Di tutt’altro avviso il compagno di partito Chris Bishop, che prima del voto in aula ha reso omaggio a David Seymour, promotore del disegno di legge: «David, se questa proposta verrà approvata questa sera e il referendum avrà esito positivo, e credo che entrambi passeranno, allora avrai dato un enorme contributo alla Nuova Zelanda. Avrai contribuito a rendere la Nuova Zelanda una società più compassionevole, una società più decente, una società più umana».
«MI VOLEVANO SOTTOTERRA», STORIA DI CLAIRE
Umana? Nel 2015, dopo uno schianto sulla strada per Auckland, che le spezzò il collo lasciandola tetraplegica, e dopo quattro tentativi di suicidio, Claire Freeman si era imbattuta nell’arrembante società neozelandese dal volto umano: Tempi vi aveva raccontato cosa accadde quando l’ospedale che aveva strappato Claire dal coma le consigliò di visitare un centro che offriva assistenza a chi tentava di uccidersi:
«Stremata sulla sua sedia a rotelle, davanti a uno psichiatra e uno psicologo, disse: “Voi non potete capire quanto sia difficile avere una disabilità come la mia: ho tanti e tali dolori, voglio farla finita. Sto pensando al suicidio assistito”. Secca la risposta degli esperti: “Potrebbe essere una buona soluzione per te”. I medici le consigliarono di andare in Svizzera a farsi uccidere».
Le cose non andarono così, ma quelle parole dei medici incarnarono per mesi la santa trinità dell’eutanasia: scelta, dignità, compassione.
«È sconvolgente come si sono comportati. Avevo appena tentato di suicidarmi e loro, guardandomi, vedevano solo la mia disabilità. Non mi hanno chiesto come andava la mia vita, se lavoravo troppo, se provavo dolore, non hanno cercato di capire o approfondire la mia depressione. Hanno solo pensato: “Soffre, è su una sedia a rotelle: è ovvio che voglia morire”. Loro mi hanno dato la possibilità di scegliere, è vero, e nello stesso istante in cui mi hanno offerto questa possibilità hanno svalutato la mia vita. Ritenevano infatti una vita disabile non degna di essere vissuta».
LE PAROLE DI LECRETIA
Oggi Claire Freeman, modella 41enne che non diede mai inizio al suo “ultimo viaggio in Svizzera” è uno dei volti della campagna “DefendNZ”, nata per difendere le fasce più vulnerabili della società dall’ipocrita libertà di scelta in Nuova Zelanda. Un’ipocrisia che si nasconde nelle pieghe del disegno di legge approvato mercoledì e nelle discussioni che l’hanno preceduto. Seymour ha ripetuto le parole di Lecretia Seales, la donna deceduta nel 2015 – lo stesso anno in cui venne consigliato a Claire di andare a morire in Svizzera – quando l’Alta Corte le negò di poter accedere alla morte assistita, e che aprì il dibattito nel paese: «Chi altro, a parte me, dovrebbe avere l’autorità di decidere se e quando la malattia e i suoi effetti siano così intollerabili che preferirei morire?».
UN FANTASMA TRA MEDICO E PAZIENTE
La norma tenta goffamente di irregimentare l’eutanasia nei soliti, fragili paletti: sarebbe consentita solo a malati terminali con un’aspettativa di vita inferiore a sei mesi e previa approvazione di due medici; non ammetterebbe candidati per ragioni di età, disabilità o problemi psichici; non prevederebbe consenso anticipato alla pratica e nemmeno la possibilità per i medici di suggerirla. Ma chi potrebbe mai assicurare che «le persone moriranno nei modi consentiti dalla legge?», ha chiesto il deputato Chris Penk rilevando l’assoluta mancanza di requisiti per i testimoni e di un periodo di riflessione nel disegno di legge che esporrebbe malati e anziani al pericolo di decidere avventatamente (e sotto pressioni esterne) di farla finita. «Sono l’unica persona in quest’aula che sarà incaricata di eutanasizzare i neozelandesi» ha fatto eco il parlamentare Shane Reti, un medico che non riesce a immaginare nel rapporto dottore-paziente l’incombere costante del «fantasma dell’eutanasia».
ALAN, GODELIEVA E NOA
In Canada, come ha tristemente dimostrato la sorte di Alan Nichols, i paletti imposti all’eutanasia dalla Corte Suprema non hanno retto neanche tre anni. Stesso discorso nel caso di Godelieva De Troyer in Belgio o di Noa Pothoven in Olanda: una volta che viene riconosciuto il diritto di morire a certe condizioni, le maglie della legge, attraverso l’argomento della non discriminazione, non possono che allargarsi in modo progressivo e costante. Nessun paletto o restrizione può infatti fermare l’eutanasia dal compiere il suo decorso fino ad arrivare ad affermare il diritto universale a farsi uccidere dallo Stato a qualunque condizione. Anche contro il volere degli stessi eutanasizzati, perché prevenire gli abusi è impossibile.
PREVENIRE GLI ABUSI È IMPOSSIBILE
«L’evidenza dimostra con forza che i dispositivi di sicurezza e protezione vengono facilmente aggirati diventando pericolosi per i pazienti disabili». Si legge così nel rapporto intitolato ““Il pericolo delle leggi sul suicidio assistito”, pubblicato il 9 ottobre dal National Council on Disability degli Stati Uniti, dove le leggi prevedono paletti ben più stringenti di quelli stabiliti per esempio dai giudici della Corte Costituzionale in Italia. Morale: se il disegno di legge approvato dal parlamento neozelandese fosse stato approvato cinque anni fa, «io oggi sarei sottoterra, morta». Quante persone potranno ripetere le stesse parole di Claire Freeman domani in Nuova Zelanda?
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