Claire Freeman: «Se ci fosse l’eutanasia, oggi io sarei già morta»
Articolo tratto dal numero di Tempi di maggio 2019.
«La verità è molto semplice: se la legge sull’eutanasia attualmente in discussione in Parlamento fosse stata approvata quattro anni fa, io oggi sarei sottoterra, morta. Si fa un gran parlare di libertà di scelta, senza mai riflettere sul terribile non detto che si cela dietro questa espressione». Claire Freeman non immaginava che un giorno avrebbe pronunciato parole simili, che si sarebbe spesa in pubblico per difendere il diritto alla vita e che sarebbe diventata uno dei volti chiave nella battaglia contro la legalizzazione dell’eutanasia nel suo paese, la Nuova Zelanda. La modella 41enne, una laurea in Design e una carriera invidiabile alle spalle, è sempre stata favorevole al suicidio assistito. “Scelta”, “dignità” e “compassione” sono parole entrate nel suo vocabolario con la forza di uno schianto quando aveva appena 17 anni.
Era il 1995 e lo schianto è quello dell’auto sulla quale stava viaggiando verso Auckland, dove la attendeva un colloquio all’università. Quel viaggio stravolse la sua vita, anche se non nel modo che si era immaginata alla partenza. Era pieno giorno e lei si era assopita sul sedile posteriore, slacciandosi la cintura che le comprimeva le costole. Al volante sua mamma, Barbara, perse il controllo della vettura per un colpo di sonno. L’automobile si ribaltò, finendo fuori strada. La sorella e la madre riportarono miracolosamente solo ferite minori e Claire, trasportata d’urgenza in elicottero all’ospedale di Auckland, pensò che tutto si sarebbe sistemato. Anche gli amici che passavano a trovarla le dicevano che tutto sarebbe tornato a posto e che nonostante il corpo bloccato a letto avrebbe ricominciato presto a camminare.
La doccia gelata arrivò con la diagnosi medica: lesione del midollo spinale, rottura della quinta e della sesta vertebra cervicale. Claire si ritrovò da un giorno all’altro tetraplegica: la lunga degenza in ospedale e la fisioterapia non le restituirono l’utilizzo delle gambe, compromesso per sempre insieme a una parte del movimento dei polsi e delle mani. «Il mio mondo si è completamente capovolto, all’inizio non avevo la minima idea delle implicazioni della paralisi, non sapevo fino a che punto avrebbe cambiato la mia vita», racconta Claire a Tempi. Prima dell’incidente il suo problema più grande erano le lentiggini, che punteggiano la sua pelle chiara, incorniciando gli occhi azzurri che i lunghi capelli rossi mettono in risalto. Dopo, fu costretta a imparare a gestire una sedia a rotelle e a fare i conti con la disabilità. E non solo lei. «Dopo l’incidente mio padre incolpò mia madre di quanto successo e si lasciarono», continua. «È stato un altro trauma: io e le mie due sorelle abbiamo passato un’infanzia idilliaca, immerse nella natura, con due genitori stupendi e una casa a Whangarei affacciata sulla spiaggia».
Nemmeno un posto dove dormire
Lo schianto che ha spezzato il collo di Claire non ha però scalfito la sua volontà. Dopo essersi iscritta alla facoltà di Design a Wellington, portata a termine con enormi sforzi «visto che avevo bisogno di riposarmi spesso», si buttò nel volontariato e allo stesso tempo trovò il lavoro dei suoi sogni come graphic designer in un’azienda di Christchurch, la terza città del paese e la più grande dell’Isola del Sud, diventata tristemente nota per gli attentati contro due moschee del 15 marzo. «Lavoravo moltissimo, fino a 50 ore alla settimana», ricorda, spiegando come aveva imparato a sopperire alla carenza di movimento della mano usandone due insieme e aiutandosi con la bocca. «In Nuova Zelanda abbiamo una cultura del lavoro molto marcata e non si fa eccezione per nessuno. Io volevo dimostrare di non essere da meno degli altri e così dovevo lavorare più degli altri».
La fatica non la spaventava e per un certo periodo dormì addirittura in macchina, in attesa di trovare una casa adatta a una persona con esigenze speciali come lei. Lo sforzo eccessivo però le causò intollerabili dolori fisici, privandola anche del sonno. «Non dormivo più di tre ore per notte ma pensavo che mi sarebbero bastate e anche quando i dolori sono diventati insopportabili ho continuato a ignorarli: mi sono laureata in design senza le mani, credevo di poter fare tutto».
Erano passati 15 anni dall’incidente ma in realtà Claire non aveva ancora fatto i conti con la disabilità. «Mi vergognavo di usare la sedia a rotelle, all’università ero schiva, non mi sono mai sentita bella a dispetto di quello che dicevano gli altri e covavo un forte risentimento, rabbia e senso di ingiustizia». La goccia che fece traboccare il vaso, rendendole insopportabile la vita e spingendola a tentare quattro volte il suicidio in pochi anni, fu il terremoto di magnitudo 6.3 che investì Christchurch il 22 febbraio 2011. Nel sisma morirono 185 persone, tra cui «alcuni miei amici», migliaia di edifici crollarono o subirono gravissimi danni. Tra questi, anche la casa di Claire.
La volontà di «farla finita»
Senza darsi per vinta, continuò a opporre a un destino che sembrava inesorabilmente nemico il suo sorriso contagioso e pensò che fosse arrivato il momento di realizzare un altro sogno: progettare e costruire la sua casa. Con i risparmi «accumulati in anni di duro lavoro», si comprò un terreno in cima a una collina, con vista mozzafiato sulla baia neozelandese, e costruì la sua casa illuminata da splendide vetrate alte fino al soffitto. Ma i dolori fisici, la mancanza di sonno, lo stress dovuto all’accumularsi dei lavori, gli incubi post-terremoto, la rabbia repressa e le difficoltà familiari la spinsero ad avere un solo pensiero: farla finita. Claire aveva già tentato il suicidio 18 mesi dopo l’incidente: tornata a visitare il padre a Whangarei, sopraffatta dai ricordi dello schianto, si appartò nella natura incontaminata, tra i cespugli, e inghiottì tante pillole da finire in overdose. Quando alcune persone che passeggiavano nei dintorni la trovarono era già in coma, ma i medici riuscirono a salvarla. Claire si svegliò due settimane dopo triste e contrariata: «Ero dispiaciuta di essere viva». Negli anni successivi tentò il suicidio in altre tre occasioni: «Ho tentato di nuovo l’overdose, una volta sono uscita in mezzo alla neve, cadendo in ipotermia e infine ho provato ad affogarmi. A ogni tentativo sono finita in coma ma per quanto possa sembrare strano, qualche passante mi ha sempre trovata e salvata pochi attimi prima che morissi».
Nel 2015, dopo l’ultimo tentativo, l’ospedale le consigliò di visitare il centro che offre assistenza a chi tenta di uccidersi. Stremata sulla sua sedia a rotelle, davanti a uno psichiatra e uno psicologo, disse: «Voi non potete capire quanto sia difficile avere una disabilità come la mia: ho tanti e tali dolori, voglio farla finita. Sto pensando al suicidio assistito». Secca la risposta degli esperti: «Potrebbe essere una buona soluzione per te». I medici le consigliarono di andare in Svizzera a farsi uccidere e Claire si sentì, in quel momento, «sollevata e felice: volevo solo chiuderla con la mia vita».
Nel 2015 Claire credeva che quelle parole dei medici incarnassero perfettamente la santa trinità dell’eutanasia: scelta, dignità, compassione. Ma oggi la pensa molto diversamente: «È sconvolgente come si sono comportati. Avevo appena tentato di suicidarmi e loro, guardandomi, vedevano solo la mia disabilità. Non mi hanno chiesto come andava la mia vita, se lavoravo troppo, se provavo dolore, non hanno cercato di capire o approfondire la mia depressione. Hanno solo pensato: “Soffre, è su una sedia a rotelle: è ovvio che voglia morire”. Loro mi hanno dato la possibilità di scegliere, è vero, e nello stesso istante in cui mi hanno offerto questa possibilità hanno svalutato la mia vita. Ritenevano infatti una vita disabile non degna di essere vissuta. E allora lo pensavo anch’io, perché ero depressa, stufa e arrabbiata. Hanno reagito in modo diverso i miei genitori, che si sono infuriati quando sono venuti a conoscenza dei miei progetti».
Una «fortuna» inaspettata
Claire, però, non era nelle condizioni di dar retta alla sua famiglia. «Io mi sentivo un peso», spiega, «innanzitutto per la società, per via del costo elevato dell’assistenza che mi forniva lo Stato. Mi sentivo anche un peso per la mia famiglia, visto che i miei genitori si erano separati a causa dell’incidente. Mi sentivo inutile. Un suicidio è una tragedia, invece il suicidio assistito non è considerato così male».
Tutto era già pronto per il suo «ultimo viaggio» in Svizzera quando un nuovo scherzo del destino diede un’altra radicale sterzata alla sua vita. Gli sforzi fatti negli anni avevano peggiorato la sua condizione fisica e un supporto metallico nel collo andava sostituito. «L’intervento chirurgico si rivelò un disastro. Una vite venne inserita nel posto sbagliato, danneggiando ulteriormente il mio midollo spinale e la rimozione mi causò il più forte dolore mai provato in tutta la mia vita». Claire perse altre funzionalità del corpo, al livello dei polsi e dei tricipiti, fu costretta ad abbandonare il suo lavoro e si ritrovò improvvisamente in mezzo a grosse difficoltà finanziarie. E per quanto ironico possa sembrare, questa è stata la più grande «fortuna» della sua vita: «Grazie a quel disastro medico ricominciai a dormire. Ero ancora più disabile di prima ma allo stesso tempo mi ritrovai con molto tempo a disposizione e forse per la prima volta iniziai a riflettere su me stessa e sulla mia disabilità».
Claire cominciò a «guardare la vita in modo diverso. Può sembrare una sciocchezza, ma io non avevo mai fatto i conti con la disabilità. La rifiutavo e mi vergognavo. Avevo un account Instagram e negli anni non avevo mai pubblicato una mia foto con la carrozzina. Lentamente ho maturato la coscienza che essere disabili non significava valere meno degli altri. E quando per la prima volta ho pubblicato una mia foto con la carrozzina e ho parlato della mia vita su un blog, ho ricevuto moltissime reazioni positive da persone che si lasciavano ispirare dalla mia storia. In tanti mi hanno incoraggiata e mi hanno aiutata a capire che avevo un valore».
La prima passerella
Fondamentale è stato anche l’aiuto di due docenti dell’università di Tecnologia di Auckland e dell’università di Toronto, Joanna Fadyl e Barbara Gibson, che hanno accettato di seguirla per un dottorato: «La professoressa Gibson non faceva da supervisore a nessuno ma quando ha scoperto la mia storia, ha accettato. Lei mi ha parlato del vero significato di “qualità della vita” e ho capito che chi mi consigliava di uccidermi vedeva solo la mia disabilità». Nel 2018 un’agenzia di moda ha notato il suo account Instagram e l’ha invitata alla Milano Fashion Week: «Sfilare in passerella è stato incredibile. Io non sono una modella ma quell’esperienza mi ha reso più sicura di me stessa».
La stessa pervicacia che ha permesso a Claire di ricostruire la sua casa dopo il terremoto e lavorare come designer, nonostante un corpo paralizzato, e che l’ha spinta a tentare il suicidio quattro volte quando era depressa e stanca di vivere, non è scomparsa. Claire infatti ha deciso di esporsi per impedire l’approvazione in Parlamento della legge “Scelta sul fine vita”, diventando uno dei volti chiave della campagna “DefendNZ”. «Metterci la faccia non è semplice e la decisione è stata difficile», racconta. «Volevo che nel dibattito fosse ascoltata anche la voce dei disabili, che tutti ignorano anche se tutti affermano a parole di volerci difendere. Io voglio solo dire a tutti: un disabile non vale meno degli altri. Nei dibattiti in tv spesso mi chiedono perché voglio togliere ai malati la possibilità di scegliere e io rispondo sempre che prima la società deve offrire tutti i mezzi perché chi soffre possa affrontare serenamente la malattia e la disabilità».
Ogni volta che ripensa ai due medici che le proposero il suicidio assistito, Claire si arrabbia: «Come si può considerare la disabilità un buon motivo per cercare la morte? Questo è il non detto che si cela dietro la “libertà di scelta”: se non sei indipendente, non vali niente. La nostra società si batte in ogni modo per abbassare il tasso di suicidi e allo stesso tempo propone di legalizzare il suicidio assistito: ma che differenza c’è tra i due?».
La religione non c’entra
Da quando Claire ha deciso di spendersi pubblicamente in prima persona per difendere le fasce più vulnerabili della società ha ricevuto tantissimi messaggi di odio da parte di chi si dice “compassionevole” solo quando compassione fa rima con morte. «Mi hanno scritto: “Sarebbe stato meglio se tu fossi morta”, “Non sai neanche reggerti sulle gambe”, “Dovresti chiudere la tua fottuta bocca” e così via». Qualcuno l’ha anche additata come cattolica e non potrebbe esserci illazione più ironica: «Io sono cresciuta in una famiglia atea, che è molto comune in Nuova Zelanda. Durante il mio cammino di vita sono diventata più spirituale e comincio a pensare che forse c’è un motivo se sono qui, se non sono mai riuscita a uccidermi, ma non mi identifico con alcuna religione». Claire non crede ai miracoli, ma il 25 aprile ha scritto nel suo blog: «Come può una persona nel mio stato essere felice? Ho sempre pensato fosse impossibile ma questo è il primo compleanno per il quale mi sento grata. Per la prima volta sono felice di ciò che sono. La mia vita è ricca anche se non è perfetta, ma esiste forse una vita perfetta?».
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