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«Il Belgio ha ucciso mia madre»

La fine sconvolgente di Godelieva de Troyer, soppressa a Bruxelles per una diagnosi di «stress psicologico» senza troppe domande e senza nemmeno avvisare la famiglia.

Leone Grotti
04/04/2019 - 17:31
Società
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Articolo tratto dal numero di Tempi di marzo 2019.

«Posso sapere perché ha fissato questo incontro?».
«Perché lei ha ucciso mia madre».
«Morire era il suo desiderio ed era anche suo diritto. Non credo che abbiamo altro da dirci».

Il Belgio è uno dei pochi paesi al mondo dove dialoghi di questo tenore possono avvenire attorno al tavolo di un ufficio, davanti a una tazza di caffè, e non nell’aula di un tribunale, davanti a un giudice. Chi ammetterebbe mai, con eloquenza limpida e pacata, facendosi scudo con la legge e forte di una nuova interpretazione del diritto condivisa dalla società, di avere ucciso una donna, madre di due figli, nonna di tre nipoti, senza neanche avvisare la sua famiglia? Chi liquiderebbe mai in pochi minuti, con fare tranquillo e ragionevole, l’angoscia e il dolore di un figlio, come se non avesse neanche il diritto di chiedere perché? Quello di Godelieva de Troyer, uccisa il 19 aprile 2012 a 64 anni con un’iniezione letale presso l’ospedale della Libera università di Bruxelles, non è soltanto il primo caso di eutanasia che la Corte europea dei diritti umani abbia mai accettato di giudicare. È anche la storia e l’emblema del falso mito della “buona morte”, che dovrebbe portare sollievo e dignità ai malati, proteggendo il loro diritto a una fine dignitosa, mentre si rivela soltanto la fine del diritto.

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De Troyer ha sofferto di depressione e si è sottoposta ad analisi fin da quando aveva 19 anni. Nei suoi diari scriveva di non volere diventare come la madre, che dipingeva come «schiava» in un matrimonio infelice, senza amore. Costretta dal padre a intraprendere la carriera del medico, nonostante desiderasse studiare storia, De Troyer si sposò a 23 anni ma dopo la nascita di due figli il suo matrimonio tumultuoso terminò con un divorzio nel 1979. Due anni dopo la separazione, l’ex marito si suicidò.
Crescere i figli da sola nella sua casa di Hasselt, piccola città delle Fiandre, in Belgio, non fu facile e, come diceva al suo medico, temeva che «pagassero per tutto quello che è successo generazioni prima di loro». Nonostante non volesse che diventassero «vittime della mia instabilità», anche il rapporto con loro si rivelò complicato. De Troyer classificava i suoi stati d’animo nel diario usando i colori, passando dal «nero!» al «grigio chiaro» a seconda di quello che le accadeva durante le giornate. Il periodo più lieto della sua vita cominciò a 50 anni, quando incontrò un nuovo fidanzato e le sembrò finalmente che la terapia del suo nuovo psichiatra cominciasse ad avere effetti positivi: «Ha guarito le mie ferite», scrisse a un amico. Nel 2005 suo figlio, Tom Mortier, ebbe la sua prima bambina e lei si rivelò una nonna attenta e premurosa.

Nel 2010, però, la sua relazione con il fidanzato si interruppe e tutto tornò di nuovo «nero!». Cominciò a lasciarsi andare, sentendo di non avere più levensperspectief, qualcosa per cui vivere. Accusò Tom, cui era appena nato il secondo figlio, di non curarsi abbastanza di lei, tagliò i ponti con i familiari e smise di andare dal suo psichiatra, che l’aveva seguita negli ultimi dieci anni. Nel gennaio 2012 scrisse un’email al figlio: «Ho fatto una richiesta di eutanasia al professore Wim Distelmans in base a una diagnosi di stress psicologico. Sto aspettando i risultati». Tom, docente di Chimica all’Università di Lovanio, non rispose, anche se preoccupato. Credeva si trattasse solo di una crisi passeggera e un collega lo rassicurò: prima di procedere devono in ogni caso avvisare i familiari. Poi, il 20 aprile 2012, ricevette una breve lettera dalla madre scritta al passato, nella quale lo informava che il giorno prima aveva ricevuto l’iniezione letale. Se non gli avesse scritto, non l’avrebbe neanche saputo.

Tom non riesce ancora a parlare della sua storia alla stampa. Da allora soffre di disturbo da stress post-traumatico e preferisce che sia il suo avvocato, Robert Clarke, che ha presentato il caso alla Corte europea dei diritti umani, a raccontare i dettagli della vicenda, che non ha nulla da invidiare al Processo di Kafka. «L’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo», spiega Clarke a Tempi, «sancisce che “il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge”, soprattutto quando è in una condizione di vulnerabilità. Il Belgio non ha rispettato questo diritto».

«Non era quella la soluzione»

La legge del 2002 permette l’accesso all’eutanasia a quei pazienti affetti da una malattia incurabile che causa sofferenza fisica o mentale «insopportabile». Se nei primi anni i casi riguardavano soprattutto malati terminali, con il tempo la legge è stata estesa ai malati psichiatrici, a quelli incapaci di intendere e volere e perfino ai bambini. Il criterio della sofferenza «insopportabile» è soggettivo ma non si può dire, sostiene l’avvocato, «che De Troyer fosse “incurabile”». Non è un caso infatti che la donna abbia faticato a trovare un medico che definisse la sua depressione senza cura, dopo che il suo medico personale aveva respinto la sua richiesta: un primo psichiatra contattato rigettò la sua domanda perché il suo desiderio di morire «non è maturo: ha alti e bassi». Un secondo fece lo stesso, affermando che quando parlava dei suoi tre nipoti non era più sicura di desiderare la morte. È dopo i primi rifiuti che De Troyer contattò Wim Distelmans, oncologo, docente di Cure palliative alla Libera università di Bruxelles e soprattutto pioniere dell’eutanasia in Belgio. Distelmans è infatti famoso non solo per organizzare seminari sulla “buona morte” nella suggestiva località di Auschwitz, ma anche per avere ucciso centinaia di pazienti, spesso in modo controverso. È lui che ha fatto l’iniezione letale a molte persone solo perché «stanche di vivere» o alla transessuale Nancy Verhelst, che dopo il cambio di sesso non riusciva più a guardarsi allo specchio sentendosi un «mostro», o ancora ai due gemelli 40enni sordi dalla nascita che temevano di diventare anche ciechi, dichiarando con orgoglio: «È la prima volta che viene praticata una “doppia eutanasia” nel mondo». Per Distelmans il vero nemico dei malati è il paternalismo dei medici e il suo pensiero è riassunto in questa massima: «Chi sono io per convincere un paziente che deve soffrire più a lungo di quanto desideri?».

Tutti devono essere liberi. Tutti devono avere accesso a un fine vita “dignitoso”. E poco importa se De Troyer scriveva prima di morire: «I miei nipoti mi mancano così tanto. Non li vedrò crescere e questo mi addolora». E ancora: «Provo frustrazione e tristezza perché non sono stata in grado di costruire un legame». «La depressione è variabile», continua Clarke, «ci sono giorni buoni e giorni meno buoni. De Troyer si trovava in un momento negativo perché era distante dalla sua famiglia, aveva rotto una relazione sentimentale, viveva un rapporto difficile con i figli. Non era l’eutanasia la risposta alla sua sofferenza: prima bisognava almeno provare a farle riprendere il rapporto con figli e nipoti». È vero che Distelmans «le ha consigliato di parlare con Tom, il mio cliente, ma noi non sappiamo se quando ha rifiutato si trovava in uno dei suoi giorni negativi». Lo Stato belga non solo non ha protetto il diritto alla vita di De Troyer, ma «ha anche violato il diritto al rispetto della vita familiare di Tom».

Quella strana donazione

Oltre al nodo della malattia «incurabile», c’è un altro punto in cui la legge è stata violata in questo caso. Il testo del 2002 prevede infatti che i due medici che approvano l’eutanasia siano indipendenti. La richiesta di De Troyer è stata firmata da Distelmans e dalla dottoressa Lieve Thienpont, che secondo i media belgi è coinvolta in un terzo di tutti i casi di eutanasia per problemi psichiatrici. Thienpont, che è già sotto indagine per l’eutanasia di una giovane donna affetta da autismo, ha fondato insieme a Distelmans Ulteam, una clinica che risponde alle domande dei pazienti che vogliono porre fine alla propria vita. Ulteam è anche legata a Leif (Forum di informazione sul fine vita), organizzazione fondata da Distelmans. I due medici, dunque, non rispondono affatto al criterio di indipendenza richiesto dalla legge. Senza contare che nel novembre 2017, l’Associated Press pubblicò uno scambio di email tra i due dottori nel quale Distelmans scriveva a Thienpont: «Non tratteremo più i tuoi casi di eutanasia nella nostra clinica. Il motivo è la divergenza di opinioni su quando una richiesta può essere approvata. Te l’abbiamo già detto diverse volte a voce, ma senza risultati. Vogliamo prendere le distanze da questo tuo modo di lavorare». Infine, sette settimane prima di morire, «De Troyer ha fatto a Leif un bonifico da 2.500 euro, scrivendo nella causale: “Grazie allo staff di Leif”», prosegue l’avvocato. «Il pagamento è sospetto e pone seri dubbi su quanto avvenuto».
I problemi non finiscono qui, perché l’eutanasia di De Troyer porta alla luce anche un enorme conflitto di interessi, che Tom ha scoperto a sue spese. Distelmans, infatti, è anche presidente della Commissione di controllo dell’eutanasia, l’organo ufficiale deputato a verificare che non venga violata la legge. Quando Tom ha scoperto la morte della madre, ha contattato la Commissione di controllo chiedendo di avere accesso al suo fascicolo, perché intendeva fare causa. Non gli hanno neanche risposto. Allora si è affidato a un avvocato, che ha ricevuto una replica lapidaria: i documenti sono «riservati» e non possono essere visionati. Quando Tom ha chiesto infine di incontrare Distelmans e la Thienpont il colloquio, riportato all’inizio dell’articolo, è stato a dir poco surreale.

Un solo fascicolo sospetto su diecimila

«Il conflitto di interessi è evidente», afferma Clarke. «Il sistema belga prevede che i casi di eutanasia siano controllati da una commissione il cui presidente è anche il medico che somministra l’eutanasia ai pazienti e che può rifiutarsi di mostrare le carte ai loro parenti. Dal 2002 sono morte più di diecimila persone, più di duemila solo nel 2017. Su diecimila casi solo uno è stato passato dalla Commissione di controllo alla procura perché sospetto. Uno su oltre diecimila in oltre 15 anni. Ma c’è di più: i numeri sono tali che la Commissione di controllo dovrebbe valutare più di sei fascicoli al giorno. Come possono svolgere bene il loro lavoro? È evidente che le persone vulnerabili in Belgio non sono protette, soprattutto se si considera che, come rivelato in uno studio del British Medical Journal, solo la metà dei casi di eutanasia nelle Fiandre viene inviata dai medici alla Commissione di controllo».

Tom ha sporto denuncia in Belgio, ma le autorità hanno rigettato la richiesta perché solo la Commissione di controllo può trasferire un fascicolo ai magistrati. Per questo si è rivolto alla Corte europea dei diritti umani, che a gennaio ha accettato il caso, chiedendo allo Stato belga di rispondere ad alcune domande per iscritto. «Siamo fiduciosi, anche se è la prima volta che viene istruito un processo di questo genere», continua Clarke. «Il Belgio deve rispondere entro aprile e forse avremo una sentenza già nel 2019, ma potrebbe anche volerci più tempo».

Un premio all’“eroe”

Quand’anche la Corte desse ragione a Tom, non potrà mai restituirgli sua madre e alleviare la sua sofferenza, che si riacutizza ogni volta che Distelmans riceve un premio per il suo impegno civile. Tre giorni dopo la morte di De Troyer, ad esempio, il medico è stato nominato nelle Fiandre uno dei dieci “Eroi dell’autodeterminazione”. Tom si è trovato anche nella spiacevole situazione di dovere scrivere alla scuola frequentata da sua figlia di otto anni, che aveva sponsorizzato un incontro con Distelmans, che non era proprio il caso di promuovere una conferenza dove il relatore era anche l’uomo che aveva ucciso la nonna di un’alunna. Quando i giornali locali poi hanno parlato del tentativo di Tom di fare causa al Belgio, l’hanno accusato di usare Distelmans come un capro espiatorio, di essere un egoista, un pessimo figlio e perfino di essere «segretamente cattolico». Un bel paradosso per un uomo come lui, cresciuto nell’ateismo, e che nel 2002, quando l’eutanasia diventò legale, si disinteressò del dibattito: «Pensava che fosse una legge che riguardava le persone anziane che stavano già morendo», confida il suo avvocato. «Non pensava che l’avrebbe mai riguardato. Ora che la legge ha sconvolto la sua vita, è preoccupato perché il fenomeno dell’eutanasia è in costante aumento, è fuori controllo e le persone più vulnerabili sono in pericolo». A sette anni di distanza dalla morte della madre, Tom non riesce ancora a parlarne e a Tempi si limita a dichiarare: «La vita di mia mamma è stata davvero difficile. Soffriva molto. Io non ho altra scelta se non andare avanti. La gente dovrà sempre ricominciare da capo».

Tags: Eutanasia
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