
Eritrea, la Corea del Nord africana dove gli abitanti «hanno paura di pensare» e «fare domande è un crimine»

Le Nazioni Unite, dopo mesi di interviste e indagini, hanno diffuso l’8 giugno un rapporto di 500 pagine dove si spiega chiaramente perché, ogni mese, circa 5 mila persone scappano dall’Eritrea. Chi non viene ucciso dai soldati alla frontiera, dal deserto, dagli animali feroci, dai trafficanti di uomini, dal Mar Mediterraneo, chiede asilo. Tutto però è meglio che vivere nella Corea del Nord africana, dove basta «fare domande» per essere arrestati.
REGIME TOTALITARIO. Il paese è guidato ininterrottamente da 22 anni dal «regime totalitario» del presidente Isaias Afewerki, che non ha mai indetto elezioni da quando ha guidato il paese all’indipendenza dall’Etiopia nel 1993. Secondo l’Alto commissariato Onu dei diritti umani, il governo si è macchiato di gravi crimini contro l’umanità in questi anni. Poiché l’Eritrea non ha permesso all’Onu di visitare il paese, il rapporto è costruito su circa 550 interviste ad eritrei fuggiti dal paese. Secondo Afewerki, le loro accuse non hanno alcun valore.
[pubblicita_articolo]«HO PAURA DI PENSARE». In Eritrea, si legge nel rapporto, vige un «pervasivo sistema di sorveglianza e spionaggio che colpisce gli individui dentro e fuori dal paese». Vivendo nella «costante paura» di essere monitorati e temendo di essere «arrestati, torturati, fatti sparire e uccisi», gli eritrei «si autocensurano in molti aspetti della vita». Per chiunque, infatti, «è impossibile sapere quali attività possono essere considerate “devianti” e sanzionabili». Come afferma un testimone: «Quando sono in Eritrea, mi sembra di non potere neanche pensare perché sono spaventato che la gente possa leggere i miei pensieri. E ho paura».
«PUNITO CHI PONE DOMANDE». La libertà di espressione non esiste e «il governo sistematicamente mette a tacere chiunque» venga percepito come un dissidente. Per «essere puniti» è sufficiente chiedere il rispetto dei diritti umani, chiedere che fine hanno fatto persone che in passato hanno criticato il governo, discutere le politiche del governo, «porre ogni tipo di domanda». Chi critica viene definito «traditore» e «punito».
«RELIGIONE È UNA MINACCIA». La libertà di stampa, così come quella di assemblea, è un miraggio e «i pochi tentativi di condurre una dimostrazione pacifica sono stati repressi dal governo, che arresta, detiene e spesso compie esecuzioni extragiudiziali». Il regime, inoltre, «percepisce la religione come una minaccia alla sua stessa esistenza e ha organizzato un sistema per controllare le sue espressioni». Solo quattro religioni sono ammesse sotto un rigido controllo: cattolica, ortodossa, luterana e musulmana sunnita. Tutte le altre possono registrarsi in teoria, ma in pratica è impossibile. La «libertà religiosa e di culto» concessa dal regime «non è compatibile con la legge dei diritti umani».
«GOVERNA LA PAURA». Così l’Onu riassume la situazione nel paese: «Non è la legge che governa gli eritrei, ma la paura». Il sistema giudiziario è una farsa, spesso si viene condannati senza processo, sulla base di accuse non provate o di «confessioni estorte sotto tortura». Molti giudici sono semplici coscritti che dipendono dal ministro della Difesa e che vengono pagati «meno di due dollari al giorno». L’indipendenza della magistratura, dunque, è inesistente.
CARCERI TERRIBILI. Le detenzioni sono all’ordine del giorno e «in tanti non hanno idea di che cosa vengono accusati e quanto tempo dovranno passare in carcere». La principale ragione per gli arresti «che la commissione è stata in grado di ricostruire riguarda l’aver posto delle domande» o «l’aver cercato di scappare dal paese». Molte persone letteralmente «spariscono» e «i parenti che fanno domande non ricevono risposte e vengono informati di smettere di fare domande sul destino [degli scomparsi] se non vogliono subire la stessa sorte».
Le torture in carcere (un esempio sopra, disegnato da un eritreo) e nei commissariati sono continue e le condizioni di detenzione «disumane»: «Le celle sono sovrappopolate, il caldo insopportabile, si dorme in mezzo agli escrementi, l’accesso all’aria e alla luce è ridotto al minimo, il cibo è poco e di pessima qualità e questo porta molti a morire di fame». Altri «sono spinti a suicidarsi».
SERVIZIO DI LEVA. Infine, bisogna parlare del servizio di leva obbligatorio, che «finisce per essere un modo per negare completamente le libertà e i diritti dell’individuo». Il periodo di coscrizione in Eritrea è «sproporzionato, irragionevole e non necessario per ragioni legate alla difesa dei confini nazionali». «Dal 1994 – si legge nel rapporto – gli eritrei hanno dovuto spendere la maggior parte della loro vita lavorativa nell’esercito. La durata del servizio militare è indefinita», può durare anche 30 anni e diventa simile «alla schiavitù». I coscritti «sono alla mercé dei superiori, vengono torturati, le donne spesso stuprate» e «chi cerca di scappare viene punito severamente». Ma piuttosto che vivere in questo inferno, il 10 per cento della popolazione ha già tentato la fuga.
Foto Ansa
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sembra che si stia descrivendo la situazione italiana da qui a breve
Gli eritrei che sbarcano qui non sembrano così ansiosi di sentirsi liberi di pensare quanto di non farsi identificare: è una libertà che a noi non è riconosciuta.
Eritrei di religione diversa dalle quattro riconosciute non si direbbe ne sbarchino tantissimi: è un problema serio, ma non la causa prinicpale di un’immigrazione che, secondo altre fonti, è di 20.000 profughi al mese: di fatto, impossibile senza il la complicità delle autorità eritree.
La lunghezza del servizio militare è indeterminata: “può durare” non significa nulla di preciso, ogni profugo dà la sua versione cronologica, tre, cinque, sette, quindici, venti.
La verità è che la causa principale dell’emigrazione verso l’Occidente sono telefonini, computer e antenne paraboliche, che conoscono bene anche da quelle parti, dove sanno che, una volta messo piede da noi, nessuna li rimanderà più indietro. Con i ricongiungimenti familiari, poi, la catena umana sarà infinita.
E se anche si intervenisse per abbattere il regime pol-pottista terzomondista che, con il suo nativismo nazional-popolare e la lotta anti-imperialista condotta grazie ai soldi dell’O.N.U., dovrebbe far piangere di gioia i no global, non solo i profughi resterebbero qui da noi, anche instaurata libertà di stampa, di pensiero, di opinione, di religione e introdotto il servizio militare su base volontaria: non solo nessun eritreo tornerebbe al borgo natìo, ma, molto probabilmente, ci troveremmo a rimpiangere un regime dittatoriale che, almeno, l’emigrazione riusciva a contenerla entro cifre, certo, tutt’altro che modeste.
Io di eritrei ne conosco una decina e tu direi nessuno. Lo sai che se vengono classificati come eritrei in italia e lo vengono a sapere laggiù gli mandano una bella letterina dalle autorità del paese natio in cui gli chiedono una tassa per “mantenere” la famiglia rimasta in Eritrea? E se non paghi?…
Infatti, lei non conosce neppure me e mi dà del tu: e così, posso pensare che lei parla allo stesso modo di cose che non sa. Tanto è vero che io ne ho conosciuti, eritrei e conosco anche italiani, fra cui miei concittadini e amici, che hanno vissuto in questi ultimi anni a lungo sia in Eritrea che in Etiopia: e direi che le rimesse degli emigrati siano una voce importante dell’economia eritrea, perché pensa che vengono mandati qui?
E che giustificazione è non farsi identificare in Italia perché non si sappia a Asmara? Lo sa benissimo, il regime eritreo, chi è rimasto e chi è andato via, non ci vuole certo un’infomativa della polizia o delle autorità italiane per scoprirlo a chi è in loco, se qualcuno è renitente alle leva o è andato via portandosi dietro mezza famiglia allargata: ma se occorrono informazioni, il regime eritreo le ottiene da inflitrati o gente ricattata apposta.
E ora, dopo aver difeso con una sciocchezza del genere una flagrante violazione ministeriale delle leggi italiane, trovi una giustificazione meno penosa. Lo faccia, possibilmente, se non chiede troppo ai suoi nervi, senza il tono che ha usato nel post che ha spedito prima, forse irritato dal non aver trovato una sola riposta alle questioni che ponevo: e così, ha dovuto inventarsi che io non conosco gli eritrei che conosce lei, come se il punto in discussione fosse questo e non le spiegazioni che vengono date per gli arrivi da questo Paese.
Allora, Sindar, che fa, non ha nulla da aggiungere al nulla che ha scritto? Le si sono atrofizzate le dita? Appena può, faccia sapere. Che le dirò quello che mi hanno risposto ragazzi e ragazze eritree cui ho domandato perché hanno voluto venire qui, in Europa. E che conferma in pieno quello che mi dicevano tempo fa i miei amici andati in Eritrea e in Etiopia per ragioni di lavoro, rimanendoci per anni. Su. Tanto, non lo diremo alla polizia eritrea, che ci tiene moltissimo a saperlo, quello che pensa lei e quello che penso io.
Davvero terribile.