È ora di ristabilire l’onore di don Govoni

Di Emanuele Boffi
23 Aprile 2019
Riapre dopo vent'anni il processo ai presunti pedofili satanisti della Bassa Modenese. Proprio nell'anniversario della morte del sacerdote

Il 20 maggio si terrà la prima udienza per la revisione del processo sui pedofili satanisti della Bassa Modenese. Nuove prove e nuove testimonianze hanno portato a rivalutare le conclusioni di una vicenda che portò, sul finire degli anni Novanta, a sconvolgere la vita di intere famiglie di questa provincia italiana. Negli anni le varie sentenze avevano portato a 15 condanne e 24 assoluzioni.

La revisione del processo

La Corte di appello di Ancona ha accolto la richiesta di Federico Scotta che, tramite l’istanza presentata dall’avvocato Patrizia Micai, aveva chiesto la revisione affinché fosse finalmente resa giustizia a tutte quelle persone (compreso lo stesso Scotta, condannato a fine anni Novanta a undici anni di carcere per abusi sessuali sui propri figli) che da quell’indagine furono devastate nella vita e negli affetti.

Cronaca di un processo diabolico

La vicenda era tornata a far parlare di sé grazie all’ottima inchiesta di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli che su repubblica.it aveva pubblicato a puntate una serie di podcast che ricostruivano quanto accaduto in quegli anni e rivelato nuovi particolari, ripensamenti, prove che hanno messo di nuovo in luce l’abbaglio preso da assistenti sociali, magistrati e giornalisti che, allora, dipinsero un’intera comunità come una setta di satanisti e pedofili. Tempi si occupò dell’inchiesta per la prima volta già il 21 aprile 1999, grazie a Gian Micalessin e poi di nuovo nel dicembre 2014 (“La strage degli innocenti della Bassa Modenese. Cronaca di un processo diabolico”).

La morte di don Govoni

Famiglie distrutte, persone finite in carcere, persino suicidi. La scia di sangue lasciata da questo processo è impressionante. Così come impressionante è la coincidenza che vuole la data della prima udienza quasi coincidere con l’anniversario della morte di don Giorgio Govoni, parroco di Staggia e San Biagio, morto di crepacuore nello studio del suo avvocato il 19 maggio di vent’anni fa.

Martire della carità

Don Giorgio è una delle figure chiave di tutta questa terribile storia. In un certo senso, tutto nacque da lui e dal suo sacrificio. Il primo a battersi perché la sua figura fosse riabilitata fu don Ettore Rovatti, parroco di Finale Emilia, il cui anniversario del decesso cade anch’esso in questo periodo (11 maggio 2015). Era stato proprio don Rovatti a instradare Tempi verso una lettura non meramente giustizialista della vicenda, facendoci dono del suo libro Giorgio Govoni, martire della carità, vittima della giustizia umana, un volume edito nel 2003 in cui si raccoglievano i documenti del processo e che era stato fatto ritirare, appena stampato, dagli avvocati di parte civile. Ma il libro, come ci raccontò lo stesso parroco, «dopo attento esame del testo», non subì alcun procedimento. Solo che la richiesta di archiviazione fu depositata nel novembre 2007, quando ormai se ne era persa memoria e pochissime copie erano state distribuite. «Un’altra ingiustizia», ci aveva detto don Rovatti.

Il capo della setta

In quel volume si ricostruiva, tra le altre, la storia di don Govoni, il “prete camionista”, come lo chiamavano tutti perché conducente di camion lo era stato veramente. Persona umile, di buon cuore, amatissimo dai suoi parrocchiani, don Giorgio in quegli anni si occupava per conto della diocesi della famiglie più disagiate della zona. Questa sua opera di carità fu, paradossalmente, la sua unica “colpa” perché fu uno dei bambini di queste famiglie a “identificarlo” (le virgolette sono d’obbligo, il piccolo parlò solo di un “medico” o un “sindaco” che «portava le scarpe coi tacchi»). Don Govoni, in base a questi fantasiosi indizi, fu accusato di essere il capo della setta di satanisti pedofili dedita a riti orgiastici nei cimiteri dove sarebbe avvenuto di tutto: decapitazioni, violenze, occultamento di cadaveri. Il 13 settembre 1997 i giornali locali diedero la notizia del suo coinvolgimento: “Pedofilia, nella banda anche un sacerdote”.

Prima le tenebre, poi la luce

L’uomo di Dio visse questa prova con gravosa angoscia. Al termine della Messa del 14 settembre lesse ai parrocchiani questo messaggio: «È l’ora delle tenebre per me e per tutti voi. Mentre mi preparo con fede a ricevere i sassi e gli sputi di tanti, sono preoccupato per voi affinché non vi sentiate traditi e disorientati. (…) Continuerò a fare ciò che ho sempre fatto, conscio che nel fare un po’ di bene per il Cristo, esistono rischi reali. State uniti e attenti a come Dio opera attraverso gli avvenimenti: prima le tenebre e poi la luce, prima la croce e poi la resurrezione. Pregate per me che non abbia a vacillare nella mia fede».

Prove? Nessuna

Sebbene contro di lui non vi fossero prove al di là delle parole del bambino, il sacerdote dovette percorrere una vera e propria via Crucis. La sua canonica fu perquisita, il suo computer esaminato. Prove? Nessuna. Il povero prete per difendersi dovette umiliarsi al punto di rendere nota la sua impotenza sessuale causata dal diabete e di non portare mai scarpe coi tacchi.

La morte di crepacuore

Per fortuna, ci fu chi non lo abbandonò in quest’ora dolorosa. I suoi parrocchiani gli dimostrarono sempre affetto, anche quando nel processo denominato “pedofili bis”, senza lo straccio di un riscontro, don Govoni fu rinviato a giudizio il primo aprile 1999. Fu in quell’occasione che il vescovo di Modena, monsignor Benito Cocchi, celebrò con lui una Messa a Staggia.
Più la gente si stringeva attorno a lui, più, con altri intenti, lo faceva la Procura che chiese una condanna a 14 anni di carcere. Il 16 maggio 2000 nella sua requisitoria finale il pm Claudiani indicò in don Govoni la figura di riferimento della rete dei pedofili. Il 19 maggio, don Govoni morì nello studio del suo avvocato Pierfrancesco Rossi. Nella sua ultima (e unica) intervista pubblicata il 20 maggio sul Resto del Carlino, ribadì la sua innocenza: «La vita è piena di prove. Ci vuole pazienza e fede. Guai se non avessi il buon Dio che mi sostiene».

Le campane suonarono a lutto

Il suo funerale fu celebrato in quattro località differenti e anche nel Duomo di Modena dallo stesso Cocchi, con la partecipazione di migliaia di fedeli. A causa del decesso, don Govoni non fu condannato, ma nella sentenza fu comunque indicato come il capo della setta. Quel giorno le campane di tutte le chiese della Bassa suonarono a lutto. Nella chiesa di San Biagio fu posta una lapide con la scritta: «Vittima innocente delle calunnie e della faziosità umana, ha aiutato assiduamente i bisognosi. Non si può negare che egli, accusato di crimine non commesso, sia stato vinto dal dolore». Sono passati vent’anni. È ora di porre rimedio a quell’accusa infamante.

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