Lo Stato ha sempre ragione e le famiglie sempre torto. È questa, secondo don Ettore Rovatti, parroco di Finale Emilia, la “morale nordcoreana” che ha guidato pm e assistenti sociali nella vicenda dei presunti pedofili della Bassa Modenese. D’altronde, lo stesso Marcello Burgoni, responsabile dei servizi sociali di Mirandola, lo aveva detto a Tempi nell’aprile 1999, quando ci occupammo per la prima volta del caso: «Vede – spiegava – in Italia c’è ancora forte nella gente il senso di proprietà del figlio: il figlio è una proprietà e nessuno me lo può toccare. La nostra Costituzione e la legislazione che è venuta avanti ha cambiato questa cultura: il bambino è un portatore di diritti e quindi va tutelato. La gente dice: “Il figlio è mio e quindi decido io”, ma sbaglia». Ecco, per don Rovatti, amicissimo di don Govoni, è tutto qui il problema: «Con quale autorità – chiede oggi a Tempi – hanno sottratto i figli ai genitori? Senza prove, basandosi su suggestioni e coinvolgendo il povero don Giorgio». Alla ricostruzione del processo e in onore dell’amico sacerdote, don Rovatti ha anche dedicato un libro dal titolo inequivocabile: Giorgio Govoni, martire della carità, vittima della giustizia umana. Il volume, edito nel 2003 e che Tempi ha potuto leggere, è basato solo su documenti del processo e fu fatto ritirare dagli avvocati di parte civile appena stampato. Così, perlomeno, credettero tutti. Invece così non avvenne, almeno formalmente, perché il libro, «dopo attento esame del testo», non subì alcun procedimento. Solo che la richiesta di archiviazione fu depositata nel novembre 2007, quando ormai se ne era persa memoria e pochissime copie erano state distribuite. «Un’altra ingiustizia», chiosa amaro don Rovatti.
Ridotta sul lastrico
«Questo è stato un processo paradossale», raccontano a Tempi i legali della famiglia Covezzi, Paolo Petrella e Pierfrancesco Rossi. Per loro, che hanno seguito il procedimento sin dalle prime battute, i casi in cui le prove portate dalla difesa sono stati calpestati sono innumerevoli. Una lotta impari. Da un lato, le fiabe dell’orrore avvalorate dall’accusa, dall’altro le prove portate dalla difesa, sempre ignorate. Certamente, tra i casi più clamorosi, ricordano le perizie del medico del pm Cristina Maggioni che, dopo visita ginecologica, assicurò gli abusi su molti minori. Violenze mai avvenute, come poi dimostrato dalla presenza dell’imene nella vagina delle piccole presunte abusate. Ma neanche la mancanza di registrazioni e video dei colloqui fra le assistenti sociali e i minori li ha messi in difficoltà. Quasi fosse inutile provare a dimostrare il contrario di ciò che – fideisticamente – andava accettato per vero, in quanto garantito dagli psicologi dell’Usl.
Chi oggi riesce a lenire solo in parte le sue sofferenze è Lorena Morselli. La donna vive in Francia dal novembre 1999, dove riparò per partorire il quinto figlio, Lorenzo, che oggi ha 15 anni. Lorena superò le Alpi proprio per evitare che anche quel bambino le fosse portato via, come gli altri quattro nella notte del 12 novembre 1998. «Ma Delfino – racconta al telefono a Tempi – è rimasto in Italia per tutto questo tempo, per dimostrare che noi non volevamo sottrarci alla giustizia. Noi volevamo solo che i nostri figli ci fossero restituiti».
Oggi Lorena è collaboratrice domestica e assicura che questa causa, tra periti, appelli e impugnazioni, l’ha ridotta sul lastrico («avrò speso almeno centomila euro»). Ha dovuto vendere le case, ricominciare da capo, vedere il proprio marito spegnersi per la fatica di provvedere a tutto, «con un cuore che, alla fine, non ha retto. Ma quando ci hanno assolti, nel maggio 2013, doveva vederlo: era così agitato e contento che cadde in ginocchio e il cuore gli batteva così forte che faceva svolazzare la camicia». I coniugi Covezzi ne hanno viste di tutti i colori e quello di Lorena è un rosario che si sgrana tra il dolore delle accuse dei figli e la rabbia per l’incompetenza e la malizia di assistenti sociali, medici e giudici. Si commuove quando parla di don Govoni, ricordando di averlo conosciuta giovanissima quando ancora la portava a curare i lebbrosi o nelle colonie estive («dove divideva sempre i maschi dalle femmine») o nelle trattorie: «Don Giorgio era un tipo davvero carismatico. Dove andava, evangelizzava».
L’affetto dei concittadini
Quando il 4 dicembre è arrivata l’assoluzione definitiva ha pensato a don Giorgio, al marito e a quei quattro figli che ancora le sono negati. «Ma io sono la loro mamma. Lo sarò per sempre. La porta – anche dopo tutto quel che è successo – è sempre aperta. Senza di loro, la mia casa non è la mia casa».
Senza l’affetto che in questi anni le hanno dimostrato tutti gli abitanti della Bassa, dice, non ce l’avrebbe mai fatta: «È stato fondamentale». Lei che quando fu accusata era catechista in oratorio e maestra nell’asilo parrocchiale, certe cose non le ha dimenticate: «Il Signore mi ha dato la grazia di stare con tanta gente cattolica. Dio sa di cosa abbiamo bisogno e dona i mezzi per resistere a tutto. Se mi ha fatto vivere questo, mi dà anche la forza per affrontarlo».