La destra ha il fiatone perché insegue sempre la sinistra

Di Emanuele Boffi
27 Novembre 2023
Come mostra il dibattito su femminicidio e patriarcato, si assume sempre come base di partenza il punto di vista dei progressisti. Perché?
Cartelli contro la violenza sulle donne e in ricordo di Giulia Cecchetin all'esterno dell'università di Palazzo Nuovo, Torino, 21 novembre 2023 (Ansa) femminicidi
Cartelli contro la violenza sulle donne e in ricordo di Giulia Cecchetin all'esterno dell'università di Palazzo Nuovo, Torino, 21 novembre 2023 (Ansa)

La famigerata egemonia culturale di destra dov’è? Magari ce ne fosse un pizzico. E invece, a parte piazzare qualche amico in posti chiave in questo o quell’ente, qui di pensiero se ne vede poco, pochissimo, quasi niente, diciamo pure niente.

Che i temi del dibattito pubblico siano imposti dalla sinistra è cosa nota. Non a caso parliamo di mainstream, la corrente maggiore, e non staremo qui a rifare il discorso dai tempi di Gramsci e delle casematte. Ma se la destra (o meglio: tutto ciò che non è sinistra) vuole provare, non diremo a costruire un’egemonia uguale e contraria, ma almeno a inserire nel dibattito pubblico una parola diversa, più razionale, meno emotiva e ideologica di quelle che la sinistra è così scafata a imporre, deve innanzitutto fare questo: smetterla di dare per scontato il punto di vista che la sinistra impone. Altrimenti non produrrà altro che una mentalità surrogata e meno brillante dell’originale. È un po’ ridicolo questo continuo inseguire col fiatone l’agenda progressista e stupisce che persino i ministri di questo governo si siano accodati a questo remissivo andazzo.

I corsi nordcoreani all’affettività

Il recente dibattito sul femminicidio e il patriarcato conferma questa sensazione. Anziché contestare che femminicidio e patriarcato col “caso Cecchettin-Turetta” non c’entrino nulla, ma proprio nulla, né da un punto di vista logico né da un punto di vista banalmente statistico, la destra assume come dato di fatto che esista un’emergenza e che occorra intervenire.

Come? Con una legge ovviamente. Perché? Chi lo ha detto che serva una norma e, poi, quale legge oltre a quelle che già ci sono e che già puniscono gli omicidi e gli atteggiamenti violenti?

Con dei corsi a scuola sull’affettività, si dice. “Affettività”, cioè? Di cosa stiamo parlando? Anche se si trattasse di un corso che evita di mostrare a dei ragazzini come si infila il preservativo sulla carota o che “due mamme è meglio di una”, perché mai dovrebbe essere la scuola l’ambito in cui educare l’affettività? Cos’è quest’idea nordcoreana per cui la famiglia deve essere subalterna all’educazione di Stato?

A ognuno il suo mestiere

Che l’educazione spetti ai genitori lo dice la Costituzione, non il catechismo («è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli», articolo 30). Dice “genitori”, non “esperti”. Questi ultimi, che siano insegnanti o professionisti, collaborano con i genitori all’educazione. Tra l’altro, i docenti hanno fra le mani uno strumento eccezionale per fare questo, anche per quanto riguarda l’affettività: insegnare bene la loro materia.

(Detto tra parentesi: ma quale miglior “corso all’affettività” potrà mai esser proposto a scuola se non leggere la Vita Nova o la Divina Commedia di Dante Alighieri? O le tragedie e le commedie di William Shakespeare? O I promessi sposi di Alessandro Manzoni?).

Che ognuno faccia il suo mestiere. Mischiare i ruoli tra genitori, insegnanti e politici ottiene un solo risultato: la confusione. Come sa chiunque sia stato a scuola, se in classe c’è baccano è impossibile fare lezione e imparare qualcosa.

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