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Del mito e della realtà, il desiderio violento dell’uomo

Intervista a Carmelo Rifici, regista e co-drammaturgo di "Ifigenia, liberata", andato in scena al Piccolo di Milano fino al 7 maggio: «La violenza è parte dell’uomo, da sempre alla ricerca di un capro espiatorio»

Nicole Jallin
09/05/2017 - 0:10
Spettacolo
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È un lavoro lucidamente complesso per livelli linguistici, analisi testuale e consapevolezza autoriale intercettati, “Ifigenia, liberata”, che ha debuttato lo scorso 27 aprile al Piccolo di Milano per direzione di Carmelo Rifici, e drammaturgia condivisa con Angela Dematté.
Una vera e propria “prova aperta” che si svolge nell’elegante sala/studio concepita da Margherita Palli, per un regista (Tindaro Granata), una drammaturga (Mariangela Granelli), attori, tecnici e pubblico. Insomma, un pool artistico concentrato sulla messa in scena di Ifigenia in Aulide, ovvero sull’indagine del sacrificio, della violenza, del desiderio insiti nell’uomo fin dalla notte dei tempi, e che si ripete inesorabilmente in forme ed espressioni diverse ancora (e ancora, e ancora) oggi. Carmelo Rifici ci spiega come si è sviluppato questo sentiero labirintico di ricerca teatrale dove il Mito degli Atridi è perno attuale attorno al quale ruota non solo Euripide, ma anche Eraclito, Omero, Socrate, Platone, Shakespeare, René Girard, Antico e Nuovo Testamento, Nietzsche, Giuseppe Fornari…

Come è nata l’esigenza di lavorare su temi come la violenza, il sacrificio, il desiderio?
Da molti anni mi concentro sul concetto di capro espiatorio, di vittima sacrificale, per capire perché l’uomo ha bisogno di qualcuno su cui scaricare il proprio male. Ma Ifigenia deriva da un percorso progressivo legato soprattutto alla collaborazione con Angela Dematté, con la quale ho condiviso nel tempo diversi progetti scenici. C’era alla base la volontà di capire come si origina la violenza e come si canalizza nel mondo, come si esplicita o come si riesce a contenere. Anche grazie a un precedente lavoro sulla figura di Clitemnestra, creato con Elisabetta Pozzi, il mito ci sembrava una via più profonda per raccontare il tema del capro espiatorio. Ma Ifigenia ha coinvolto anche altri strumenti d’indagine: siamo partiti dall’antropologia di René Girard che meglio coglie il concetto di capro espiatorio e lo sviluppa nel territorio alquanto pericoloso situato tra sacralità e violenza; da Eraclito, che era implicito per noi perché ha dato il la a un’analisi sulla storia della violenza dell’uomo. Poi la rete di testi si è infittita in corso d’opera: ogni autore ci rimandava a un altro, che è anche la chiave dello spettacolo: una struttura aperta che non vuole fornire risposte ma cercare tentativi d’uscita, di speranza, non di chiusura in un sentimento di criticità. Allora è arrivata l’esigenza di utilizzare il testo di Euripide, ma è stato l’ultimo passaggio di questo iter di conoscenza.

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Il tema della violenza è centrale. Ma l’aggressività dipende da fattori politici, sociali, ecc. o è innata nell’uomo?
Fa parte della natura umana, almeno così suggerisce lo spettacolo. Quando tra due individui scoppia quello che Girard chiama “desiderio mimetico”, ovvero l’invidia o il desiderio di possedere qualcosa dell’altro, allora inizia il rapporto con la violenza, che a sua volta nutre il desiderio di metterla in pratica o di allontanarla. Il desiderio è quello che racconta Calcante, è il mostro che divora ogni cosa, che può anche trasformarsi in corruzione, o in sete di potere, diventando così un fatto politico, sociale. Ma la base – questo racconta lo spettacolo – è antropologica: è qualcosa che ha generato l’uomo e di cui l’uomo si alimenta sin dalle prime etnie protoumane. E chissà quante simili alla nostra sono svanite per l’incapacità di gestire la violenza, di trovare sistemi di contenimento. Come la religione, per esempio, che la istituzionalizza in un unico gesto di morte. Adesso le religioni sono scomparse (come dice il personaggio del regista) Dio si è un po’ dissolto, i riti funzionano sempre meno, il capro espiatorio esiste ancora ma è più nascosto, raffinato. Però nulla è cambiato: nella nostra società in forte crisi permane il bisogno di individuare un nemico, un colpevole. Permane un desiderio mimetico (tutti vogliamo le stesse cose, lo stesso I-Phone, lo stesso televisore) e questo coincide con una semplificazione del linguaggio. D’altra parte la politica parla chiaro: fino a qualche tempo fa era più difficile dire che è bello essere xenofobi o razzisti, oggi si può farlo con più tranquillità. È facile dire qualsiasi cosa perché il linguaggio non è più complesso, è “democratizzato”. Bisognerebbe capire se quella è democrazia.

E in tutto questo il teatro che ruolo ha?
Il teatro ha un ruolo molto difficile in questo momento, perché è nato violento, racconta la realtà nutrendosi di cinismo e rispecchiando la violenza. Il teatro nasce come rito di morte e di racconto di quella morte, e ha in sé un potere distruttivo insieme al suo antidoto: tocca a noi esserne consapevoli e capire come utilizzarlo liberamente, al di là delle definizioni e delle categorie: detesto le categorie, non capisco l’esigenza del teatro contemporaneo di definirsi in quanto contemporaneo o di definire il teatro in quanto qualcosa. Con Ifigenia io e Angela abbiamo cercato di esorcizzare la violenza attraverso il testo drammaturgico, rendendo terapeutico il rapporto tra pubblico e quella violenza attraverso la parola: la parola come fonte di un contagio buono.

Ifigenia ha la forma di un “labirinto creativo” che si rivela esteticamente come “teatro nel teatro”…
Il labirinto era già implicito ai contenuti e alla modalità di studio dei temi, dunque era perfetto individuarlo anche nella forma estetica da dare allo spettacolo. Però non c’era nessuna volontà preventiva di realizzare il “teatro nel teatro”: quello che mostriamo è una prova, che poi sia pirandellianamente conducibile al “teatro nel teatro” è un effetto involontario. Noi durante le prove lavoriamo così e ci è sembrato più onesto proporre questo percorso di ricerca e conoscenza che chiudere e formalizzare tutto in una rappresentazione. Così si prova in teatro, e così provo io. E il pubblico vede esattamente come lavoro: non sono mai cronologico, faccio mille nessi, passo a un’altra scena, fermo gli attori… Volevo portare sul palco questo viaggio condiviso e portare il rapporto con gli attori: perciò abbiamo scelto di inserire un regista e una drammaturga come me e Angela, affidando a Tindaro e Mariangela, e alla loro empatia e naturalezza, questo compito interpretativo.

Infatti ci troviamo in una sala prove (disegnata da Margherita Palli) che rivela anche qualcosa di kubrickiano…
Kubrick è sempre un ispiratore. È il regista che ha raccontato meglio il rapporto imprescindibile tra l’uomo e la sua capacità di compiere violenza, e il cinema è l’arte che è riuscita meglio a sviluppare col suo linguaggio il concetto di labirinto: anche per questo in scena ho utilizzato il video. Lo schermo mi è servito per varcare porte che a teatro più di tanto non puoi fisicamente aprire. E penso che il prossimo passo per uno studio attento del labirinto dovrebbe essere all’interno del web. Credo che la violenza che negli anni è stata ben raccontata grazie al cinema adesso venga raccontata anche in maniera piuttosto strana dal web, strana perché è una violenza non consapevole. È un territorio d’indagine molto interessante per un regista, perché è lì che si nasconde il nuovo Minotauro.

@NicoleJallin

Foto © Masiar Pasquali

Tags: Milanoteatro
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