De Magistris e Genchi spiavano Di Pietro?

Di Peppe Rinaldi
05 Aprile 2012
Dagli atti del processo contro De Magistris e Genchi spuntano strane confidenze sul cellulare di Antonio Di Pietro. Pure il leader dell’Idv era controllato? E perché i suoi rapporti con le società coinvolte nelle indagini non finirono nel tritacarne? Quarta puntata dell'inchiesta di Tempi.

Quarta puntata della nostra inchiesta sui fatti che hanno portato al rinvio a giudizio dell’ex sostituto procuratore di Catanzaro Luigi De Magistris, oggi sindaco di Napoli, e del suo consulente Gioacchino Genchi, che dal 17 aprile dovranno difendersi davanti al tribunale di Roma (qui la prima puntata, qui la seconda e qui la terza). 

Di seguito pubblichiamo alcuni stralci dell’articolo che apparirà domani su Tempi in edicola.
 

(…) L’8 dicembre del 2008 Gioacchino Genchi mandò una lunga nota al sostituto procuratore di Salerno Gabriella Nuzzi, quella dei famosi, reiterati e anche notturni contatti telefonici con De Magistris. La stessa Gabriella Nuzzi che fu poi sanzionata dal Csm assieme ad altri (con il trasferimento di sede e di funzioni) per via del celeberrimo scontro tra le procure di Salerno e Catanzaro, scaturito proprio dalle denunce di De Magistris in merito alle presunte trame ordite dai colleghi per fargli avocare le sue mirabolanti indagini. Quando Genchi scrisse alla toga campana, le avocazioni c’erano già state, ma il consulente della procura di Catanzaro era ancora legittimato a entrare nel merito di certa materia, perché uno dei procedimenti penali sorti a latere di “Poseidone” sopravviveva e nessuno degli organi sovraordinati all’ufficio del pm era intervenuto. Si trattava del fascicolo 1330/04, trasmesso per competenza funzionale a Salerno e riguardante certe “strane” fughe di notizie.

La lettera contiene un passaggio decisivo. Scrive Genchi alla Nuzzi: «Antonio Saladino (l’imprenditore calabrese attorno all’agenda del quale è stato montato tutto il can can che conosciamo, ndr) ha dichiarato alla stampa di non aver mai conosciuto né incontrato l’avvocato Nicola Mancino (all’epoca vicepresidente del Csm, ndr) nello stesso contesto in cui ha dichiarato di conoscere invece l’onorevole Antonio Di Pietro. Con il cellulare dell’onorevole Antonio Di Pietro, stante che l’onorevole Di Pietro è uno dei pochi ad aver utilizzato un cellulare a lui intestato, non risultano contatti telefonici con le utenze di Antonio Saladino mentre ne risultano invece con le utenze “Delta”, accertate in uso all’ex presidente del Consiglio, professor Romano Prodi». Secondo Genchi, quindi, anche il leader dell’Italia dei valori era in contatto telefonico con le famose Sim card intestate alla Delta, società riconducibile all’ex premier. Il che, in linea di principio, non vuol dire un bel niente, perché telefonarsi non è reato. Almeno non ancora. Peccato però che la Delta fosse uno degli snodi centrali nel presunto giro di fondi pubblici ipotizzato da De Magistris e Genchi nell’indagine “Why not”. Eppure per i contatti delineati da Genchi tra la prodiana Delta e Di Pietro nessuno ebbe da ridire, mentre altri celebri e meno celebri indagati si ritrovarono invischiati in questa storia surreale anche solo per aver spedito o ricevuto un sms. 

Ma la lettera alla pm campana desta anche un altro interrogativo: come faceva Genchi – e di conseguenza De Magistris – a sapere che Di Pietro era stato «uno dei pochi a utilizzare un cellulare a lui intestato» e che «non risultavano contatti con Saladino» mentre «ne risultavano con “Delta”»? Pure le utenze del politico molisano erano state passate ai raggi X? Può essere che tutte quelle informazioni non fossero state ricavate dal cellulare di Di Pietro, bensì dai telefoni di Saladino e della Delta. Ma anche in questo caso resta l’anomala conoscenza del tipo di scheda utilizzata dal leader Idv. Una circostanza forse ammessa involontariamente dall’ex consulente davanti a un pm, la dottoressa Gabriella Nuzzi, che da parte sua non opporrà alcuna domanda incidentale per chiarire la stranezza. Per di più Di Pietro era parlamentare in quel momento (Di Pietro è sempre parlamentare), come mai allora non compare tra le parti offese del processo di Roma dove altri otto suoi colleghi sarebbero stati “spiati”? Ce n’era anche qualcun altro, è vero, di deputato o senatore poi sparito dall’indagine “Why not”, ma dire Di Pietro non è come dire, ad esempio, Giovanni Kessler, deputato diessino dell’Alto Adige finito nel calderone e poi subito uscitone. Ogni nome altisonante della politica italiana che a vario titolo sfiorasse la Calabria immaginata da De Magistris fu trascinato nella melma delle carte bollate di Catanzaro.

Antonio Di Pietro, invece, fu risparmiato. Perché? Una risposta non c’è. C’è però, nel 2009, una candidatura al Parlamento europeo proprio nelle liste dell’Italia dei valori in favore del pm «che indagava a 360 gradi e non guardava in faccia a nessuno», divenuto poi sindaco di Napoli, sempre con l’Idv. E c’è pure un celebre discorso del suo ex consulente dal palco di un congresso del partito di Di Pietro: una tirata in perfetto stile Michael Moore, dove la statuetta scaraventata da uno psicolabile in faccia a Berlusconi divenne un escamotage mediatico organizzato dalla vittima stessa. Il rosso sangue sul volto del Cavalere era, evidentemente, pomodoro cinematografico. Ma saranno state tutte coincidenze. 
(4. continua)

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