Milano, ottobre. L’altra mattina presto in via Rombon, dove le auto accelerano uscendo dalla città, al semaforo dopo il ponte ferroviario ho alzato gli occhi dal volante. Contro un cielo incolore un grande stormo di uccelli volteggiava, disposto in formazione perfettamente simmetrica sulla città ancora addormentata. Ancora una volta mi ha sorpreso come delle creature di poche decine di grammi abbiano memoria e codici per volare così, insieme, sincrone, dietro a quella che le guida; e come nessuno ritardi, o si separi dal gruppo, mantenendo anzi con assoluto rigore la formazione. Il capo dei rondoni, credo che siano rondoni, sembrava esitante: partire o no? Era già arrivata l’ora? E con il suo corteo di disciplinate ali nere oscillava sopra il viale di periferia – come uno che debba andare, e però già abbia nostalgia. Il cielo bianco sembrava, in quel volteggiare libero, più grande.
E l’altro giorno invece, ai Giardini di via Palestro, impensierita e di fretta, ho però posato per un attimo uno sguardo più attento sulle chiome degli alberi. La maggior parte degli alberi, a ottobre, semplicemente ingrigisce. Come certi vecchi distinti e ben vestiti che si incontrano nei quartieri borghesi; dignitosi, composti, e tuttavia marchiati dalla solitudine e dagli anni. Qui e là, disordinatamente, qualcuno degli alberi dei Giardini nella vecchiaia dell’autunno si era fatto color porpora, o oro – le foglie perfino più belle, nell’ora del decadimento, che nel colmo dell’estate. Alcuni alberi addirittura, ho notato, assumono un colore di fiamma, come se un incendio interiore li ardesse dalle radici alle chiome; e sono i più belli, struggenti nel loro fuoco, come in un ultimo amore.
Un lettore di questa rubrica mi ha scritto che indulgo troppo all’intimismo, mentre dovrei preoccuparmi di lottare contro l’avanzata dell’islam in Occidente, o gli altri mali che ci minacciano. È vero: in queste righe non scrivo di denunce, o di battaglie. Se sto così attenta agli stormi però, o agli alberi di Milano, è per cercare di testimoniare, tra le cose quotidiane, quello che è bello – come per un imperativo interiore. Questa bellezza sommessa che ci cammina accanto ma che non sempre distinguiamo, fin da bambina mi è parsa una sorta di codice silenzioso, o di orma, lasciata sul terreno da un invisibile viandante. Come una sezione aurea della realtà, una impronta, stampata in ciò che vive; nascosta spesso, eppure profonda come una antica radice. Vorrei soltanto collaborare a conservare questi piccoli frammenti, che cerco e riconosco sotto ad apparenze semplici.
Le orme, ecco, a me piace essere fedele alle orme. Come quello stormo prodigiosamente schierato nel cielo sopra Milano e in partenza, all’alba, obbediente a un ordine che colmava di sé il cielo incolore.