Al diavolo piace questa arietta di regime che esige “rispetto” per le sentenze

Di Berlicche
17 Agosto 2013
Giustizia? Il processo è una battaglia in cui si vince o si perde, ma non è dovuto che chi soccombe debba sposare le ragioni del vincente. Erano (erano?) i totalitarismi che esigevano l'autocritica dal condannato

Mio caro Malacoda, devo sinceramente dirti che quando sento certe frasi, pronunciate con l’enfasi di chi sta enunciando un principio non negoziabile (anche se pensa che non esistano princìpi non negoziabili) su questioni che sono evidentemente frutto di negotium, mi viene da ridere.

Tu mettiti nei panni di un italiano medio che sente un importante uomo politico, segretario del partito erede del più grande partito comunista dell’occidente, ma al tempo stesso già militante del partito di cui fu leader Bettino Craxi, ecco, dicevo, questo ex sindacalista proclama che «le sentenze si rispettano, si applicano e si eseguono». E il tono è tale per cui la frase in sé ti sembra una tautologia: certo, è ovvio, è normale, è giusto.

C’è solo un problema: non è mai stato ovvio, né normale. Anzi, l’evoluzione del diritto è sempre passata attraverso sentenze che sono state criticate e non rispettate. Il fatto che siano state eseguite non è una prova della loro verità. Si è forse rispettata la sentenza sul caso Dreyfus? E il processo di Verona è parso a tutti equo? È il caso Sofri ricorda qualcosa a qualcuno? E la possibilità stessa di fare appello non dice del non rispetto di una sentenza?

Certo, ti rispondono i rispettatori delle sentenze altrui: appello, cassazione e poi basta. E la revisione del processo, e i ricorsi in sede europea? E il diritto del condannato di proclamarsi comunque innocente? Le sentenze, per principio, si criticano. Erano (erano?) i regimi che necessitavano del “rispetto” della sentenza nel senso dell’autocritica. Il processo è una battaglia in cui si vince o si perde, ma non è dovuto che chi soccombe debba sposare le ragioni del vincente.

E poi, nipote, lasciamela dire tutta: in nome di chi vengono emesse le sentenze dai tribunali del Belpaese? In nome del popolo italiano. Formula che riassume un percorso tortuoso: il popolo elegge i suoi rappresentanti, i quali fanno le leggi. Per altra strada chi deve applicare queste leggi “in nome del popolo” viene reclutato attraverso concorso pubblico. Di lì in poi sentenzia in nome del popolo, e il suo libero convincimento va accettato, applicato, eseguito.

Succede però una cosa strana: quando il popolo esprime in modo diretto sentenze, giudizi e pareri su una certa questione (questo in fondo, se ci pensi, sono anche le sentenze dei tribunali: il convincimento di uno o più giudici su come vada applicata la legge su un caso personale) può capitare che chi professionalmente è chiamato ad applicare la volontà del popolo non se ne curi. Succede periodicamente in Italia con i risultati dei referendum. Vuoi sapere che cosa pensa il popolo – non solo che cosa pensa, che cosa stabilisce – riguardo alla responsabilità dei magistrati? Hai la risposta chiara e inequivocabile espressa direttamente dal popolo stesso e non da un suo interessato interprete. Solo che in questo caso non troverai nessun segretario di partito, né presidente di associazione nazionale di magistrati, che ti ricorderà pubblicamente che «le sentenze (del popolo) vanno rispettate, applicate ed eseguite».

Insomma, c’è sentenza e sentenza, c’è rispetto e rispetto, c’è popolo e popolo. Noi diavoli non dobbiamo demordere, e continuiamo a chiamare tutto questo “giustizia”. Berlino (e il suo giudice), in fondo, è lontana.

Tuo affezionatissimo zio Berlicche

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4 commenti

  1. Giovanni

    Obella! Al corso per diavolacci di prima classe mi avevano detto che una delle nostre migliori invenzioni era la storia che la giustizia non esiste, che contano solo i rapporti di forza. Mi avete fato studiare che la legge è il fucile sulla spalla dell’operaio, che quel cartello nei tribunali, legge uguale per tutti, è una perversione borghese. Che non esiste altro diritto della volontà del Proletariato, che la esprime tramite il Partito di cui il Leader è la sintesi vivente, la volontà incarnata. E adesso proprio tu mi cambi le carte in tavola, mi dici che sono il diritto, la legge e i tribunali i nostri migliori alleati. Mi tocca fare un altro corso…

  2. Alcofibras

    Fossi Malacoda starei molto attento: un pentimento capita quando meno te lo aspetti e lasciar scappare il pesce già finito nella rete merita una bella punizione. (Purtroppo però è sufficiente che ciò accada nel foro interno, senza grandi soddisfazioni per chi – per forza di cose – può guardare solo quello esterno)

    A scanso di equivoci anche da parte del mio diavolo custode, vorrei precisare che non dubito affatto della salvezza di B o di chicchessia: non vorrei infatti incappare nel gravissimo peccato contro lo Spirito ponendo limiti alla Divina Misericordia.

    Sulle corti umane e divine non mi pronuncio, faccio solo presente che il giudice è a Berlino solo quando assolve certe persone, putacaso molto ricche e molto potenti, mentre negli altri casi è a Milano.

    Non ho capito se è Lei l’autore dell’articolo; se è così, complimenti per le Sue capacità mimetiche

  3. gianni

    Caro Alcofibras, grazie per l’acuta e pungente immagine malacodiana: chissà, forse sarà anche profetica e Dio non mancherà di prestare soccorso all’annoiato Malacoda invece che salvare all’ultimo respiro il dissoluto peccatore.
    Tuttavia la corte che ha condannato il B. è civile e non divina (o trascendente). Pertanto continuo a considerare quella sentenza semplicemente politica, e quindi iniqua, incivile.
    Poi di indagare sul colore dell’anima del B. lo lascio ai sensitivi come lei…e ai preti della scuola don Gallo!
    Agiao!

  4. Alcofibras

    Mio caro zio Berlicche

    B, il paziente che come sai Nostro Padre mi ha assegnato in cura, è uno dei casi più facili che mi siano mai capitati, talmente ovvio e prevedibile da risultare persino noioso: non faccio in tempo a suggerirgli una certa possibilità di godere meglio delle cose di questo mondo, che lui ne esplora con soddisfazione tutti i possibili corollari.

    Ti faccio un esempio: prendi la superbia, che Tommaso, quel vigoroso indagatore delle nostre strategie di controllo del cuore umano, definì come amor propiae excellentiae. Ebbene, nel mio paziente questa considerazione della propria individuale superiorità arriva al punto di pretendere, da chi neppure volendo potrebbe dargliela, una grazia motu proprio senza termini e condizioni, valida per tutti i reati passati presenti e futuri.

    Tu capisci che in queste condizioni di lavoro alla noia rischia di subentrare l’umiliazione: essere assegnato a un paziente del genere per un diavolo dal curriculum come il mio è vero e proprio mobbing!

    Per cui ti scongiuro, caro zietto, attivati presso chi sai tu e fammi dare un paziente più interessante: se non ti sbrighi rischio di slogar mi la mascella dagli sbadigli

    Tuo affezionatissimo nipote Malacoda

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