Mio caro Malacoda, devo sinceramente dirti che quando sento certe frasi, pronunciate con l’enfasi di chi sta enunciando un principio non negoziabile (anche se pensa che non esistano princìpi non negoziabili) su questioni che sono evidentemente frutto di negotium, mi viene da ridere.
Tu mettiti nei panni di un italiano medio che sente un importante uomo politico, segretario del partito erede del più grande partito comunista dell’occidente, ma al tempo stesso già militante del partito di cui fu leader Bettino Craxi, ecco, dicevo, questo ex sindacalista proclama che «le sentenze si rispettano, si applicano e si eseguono». E il tono è tale per cui la frase in sé ti sembra una tautologia: certo, è ovvio, è normale, è giusto.
C’è solo un problema: non è mai stato ovvio, né normale. Anzi, l’evoluzione del diritto è sempre passata attraverso sentenze che sono state criticate e non rispettate. Il fatto che siano state eseguite non è una prova della loro verità. Si è forse rispettata la sentenza sul caso Dreyfus? E il processo di Verona è parso a tutti equo? È il caso Sofri ricorda qualcosa a qualcuno? E la possibilità stessa di fare appello non dice del non rispetto di una sentenza?
Certo, ti rispondono i rispettatori delle sentenze altrui: appello, cassazione e poi basta. E la revisione del processo, e i ricorsi in sede europea? E il diritto del condannato di proclamarsi comunque innocente? Le sentenze, per principio, si criticano. Erano (erano?) i regimi che necessitavano del “rispetto” della sentenza nel senso dell’autocritica. Il processo è una battaglia in cui si vince o si perde, ma non è dovuto che chi soccombe debba sposare le ragioni del vincente.
E poi, nipote, lasciamela dire tutta: in nome di chi vengono emesse le sentenze dai tribunali del Belpaese? In nome del popolo italiano. Formula che riassume un percorso tortuoso: il popolo elegge i suoi rappresentanti, i quali fanno le leggi. Per altra strada chi deve applicare queste leggi “in nome del popolo” viene reclutato attraverso concorso pubblico. Di lì in poi sentenzia in nome del popolo, e il suo libero convincimento va accettato, applicato, eseguito.
Succede però una cosa strana: quando il popolo esprime in modo diretto sentenze, giudizi e pareri su una certa questione (questo in fondo, se ci pensi, sono anche le sentenze dei tribunali: il convincimento di uno o più giudici su come vada applicata la legge su un caso personale) può capitare che chi professionalmente è chiamato ad applicare la volontà del popolo non se ne curi. Succede periodicamente in Italia con i risultati dei referendum. Vuoi sapere che cosa pensa il popolo – non solo che cosa pensa, che cosa stabilisce – riguardo alla responsabilità dei magistrati? Hai la risposta chiara e inequivocabile espressa direttamente dal popolo stesso e non da un suo interessato interprete. Solo che in questo caso non troverai nessun segretario di partito, né presidente di associazione nazionale di magistrati, che ti ricorderà pubblicamente che «le sentenze (del popolo) vanno rispettate, applicate ed eseguite».
Insomma, c’è sentenza e sentenza, c’è rispetto e rispetto, c’è popolo e popolo. Noi diavoli non dobbiamo demordere, e continuiamo a chiamare tutto questo “giustizia”. Berlino (e il suo giudice), in fondo, è lontana.
Tuo affezionatissimo zio Berlicche