A tre anni dal rapimento dei vescovi di Aleppo. «Tutti hanno perso la speranza di rivederli»

Di Rodolfo Casadei
22 Aprile 2016
Intervista a suor Marta, priora del monastero trappista siriano di Azeir, che racconta la difficile situazione del paese. «Ora il vero pericolo sono le gang criminali»
epa03866588 Poster of Archbishop Yohanna Ibrahim (L) and Bishop Boulos Yazigi (R) hangs on the Holy Cross during a sit-in in solidarity with the archbishops in Beirut, Lebanon, 13 September 2013. Bishop Boulos Yazigi and Archbishop Yohanna Ibrahim were abducted by gunmen on 22 April 2013 in Aleppo, Syria. The Arabic words read 'praying for you'. EPA/WAEL HAMZEH

«Vescovi e sacerdoti dicono: “Non abbiamo notizie”, i cristiani comuni dicono: “Gli hanno fatto del male, non torneranno più”. Tutti sembrano avere perso la speranza di rivederli fra noi». Sono passati tre anni dal sequestro di due vescovi metropoliti di Aleppo – il siro ortodosso Mar Gregorios Yohanna Ibrahim e il greco ortodosso Boulos Yazigi – e suor Marta, priora del monastero trappista siriano di Azeir di passaggio in Italia, riassume con queste poche parole lo stato d’animo dei cristiani siriani rispetto al destino dei due presuli rapiti.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Il 22 aprile 2013 stavano viaggiando nel nord della Siria, tornando ad Aleppo dal confine con la Turchia che avevano visitato – forse per motivi legati al rapimento di due sacerdoti pochi giorni prima, anch’essi spariti nel nulla – quando di loro si persero le tracce. Nessuno sforzo è stato sufficiente a chiarire cosa sia successo. Si ipotizza che siano stati intercettati da qualche gruppo ribelle minore, che non ha capito il valore delle “prede” e ha compiuto l’irreparabile. Nonostante la tregua di fine febbraio che ha portato un po’ di sollievo in tante (non tutte) regioni della Siria, le condizioni per celebrare nella sicurezza e nella dignità il triste anniversario con gesti pubblici ancora non esistono, e la principale iniziativa commemorativa si è tenuta a Beirut, nel Libano.

Intanto la vita lentamente riprende. «Il nostro monastero sorge nella zona di Homs, e nella città non ci sono più combattimenti. Gli ultimi ribelli hanno avuto il salvacondotto per andarsene, consegnando le armi pesanti e portandosi via solo quelle personali. La vita è ripresa, anche se si vedono scene surreali: una casa ristrutturata e imbiancata di fresco circondata da edifici diroccati e disabitati, una via piena di gente che va per botteghe e se butti l’occhio a destra al primo incrocio vedi un intero quartiere ridotto a cumuli di rovine». C’è l’armistizio ma un po’ in tutta la Siria non c’è un gran via vai di persone fra i quartieri sotto controllo governativo e quelli sotto controllo ribelle. La diffidenza è grande. «Ogni tanto nei quartieri sotto controllo governativo si vede una donna velata da sola accompagnata da un bambino, oppure da una persona molto anziana. Sono i familiari dei ribelli mandati in avanscoperta, a fare la spesa e a vedere che aria tira».

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Ad Azeir, dove sorge il monastero non lontano dalla cittadina di Talkalakh a lungo contesa e dal confine col Libano, le armi avevano cessato di far sentire la loro voce già da tempo. «Le forze governative hanno riconquistato Zara, vicino a noi, e più all’interno il Krak des Chevaliers già nella primavera di due anni fa, da allora non sentiamo più esplosioni e raffiche di armi automatiche. I passaggi notturni di ribelli e armi attraverso la frontiera libanese, che sfioravano il recinto del monastero, sono quasi cessati. Adesso il vero pericolo sono le gang criminali, che grazie alla crisi dell’ordine pubblico conseguenza della guerra sono cresciute in numero di banditi e in armi. Si sono moltiplicati i rapimenti di persone della zona. Basta che giri la voce che qualcuno ha fatto qualche buon affare, e dopo un po’ viene sequestrato. Chiedono riscatti anche di 20 milioni di lire siriane (quasi 100 mila dollari)».

Il monastero non ha mai chiuso i battenti nemmeno nei momenti più difficili. Avviato nel settembre 2010, pochi mesi prima che scoppiassero le proteste che poi sarebbero sfociate nella guerra civile, aveva dovuto ridurre il ritmo dei lavori di edificazione al culmine degli scontri militari. Le quattro monache italiane presenti però non si sono mai date per vinte e sono rimaste sul posto per testimoniare la loro fedeltà al popolo siriano, cristiani e musulmani, e soprattutto alla decisione di mettere la loro vita nelle mani di Cristo dopo avergliela interamente consegnata al momento della professione dei voti perpetui. Presto sono diventate cinque e da qualche tempo a loro si è unita una postulante siriana – la prima -, una giovane cristiana di confessione greco ortodossa. Ora i lavori di allestimento sono ripresi, 15 operai lavorano con una certa continuità e il monastero diventa sempre più accogliente: «Viviamo e preghiamo ancora nell’edificio che un giorno diventerà la foresteria, ma intanto abbiamo tirato su un certo numero di stanze per gli ospiti in pietra grezza locale, un edificio su due piani che ospiterà un laboratorio e il noviziato, la cisterna per l’acqua che ci risolverà tanti problemi, e stiamo pavimentando la strada interna alla proprietà».

La ripresa dei lavori significa il rinnovarsi del monastero come segno di pace e di riconciliazione nella regione, perché operai e manovali che realizzano i lavori sono cristiani, musulmani sunniti e alawiti che provengono dai villaggi vicini. La regione è un mosaico dal punto di vista religioso. Dall’estate scorsa il monastero è tornato ad essere centro per ritiri di gruppi: i salesiani da Damasco, i gesuiti da Aleppo hanno ricominciato a mandare giovani e meno giovani. «Per la gente il momento più duro è stato l’estate scorsa, quando in tivù e sui siti internet vedevano gli sbarchi di massa e i treni pieni di profughi in Europa. “Allora non ha senso resistere, dobbiamo andarcene tutti”, ci dicevano. Chi arrivava in Europa chiamava quelli che erano qui per convincerli a partire. Adesso la pressione non è più così forte. Sentiamo la gente di Aleppo. Ci dicono: “Non è vero che non si spara più, ma adesso almeno abbiamo l’acqua tutti i giorni!”. Prima, i ribelli sospendevano l’erogazione quando erano ai ferri corti coi governativi». Quella Aleppo alla quale non sono più tornati Gregorios Yohanna Ibrahim e Boulos Yazigi, pastori separati dal loro gregge.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa – Rodolfo Casadei

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