Sostiene Massimo Mucchetti sul Corriere del 4 giugno che non sono le medie imprese a perdere colpi, ma quelle grandi: nell’ultimo anno infatti hanno ridotto gli organici del 23 per cento. Le medie imprese non si quotano in borsa, non perché non sono competitive, ma perché vanno bene: il 44 per cento del passivo delle 3966 imprese italiane è rappresentato da capitale e riserva, contro il 37 per cento delle multinazionali europee. Perché quotarsi se si perde il controllo dell’impresa e si fallisce più facilmente? Nonostante il pessimo risultato delle grandi imprese, l’Italia guadagna il 38 per cento sulle esportazioni dal 1996 al 2004, solo 6-7 punti in meno di Usa, Giappone e Regno Unito. Perciò le attenzioni per cambiare l’economia devono essere rivolte verso piccole, medie e grandi imprese sapendo discernere in tutti e tre i comparti tra chi è competitivo e chi no. E allora come muoversi?
A un incontro dell’Aspen Institute, un imprenditore di rilievo come Mirko Radici ha detto che difficilmente le aziende italiane riusciranno a colmare i 50 anni di ritardo tecnologico accumulatosi nei confronti dei competitor statunitensi. Ma la nuova competizione – quella che si gioca sull’innovazione organizzativa che ha creato modelli d’impresa come il leader mondiale dei coffee shop Starbucks, il colosso spagnolo della moda giovane Zara o il re del low cost Ryanair – non possiamo mancarla. Noi possiamo tornare protagonisti in quei campi in cui la creatività, l’immagine e l’intelligenza organizzativa diventano fattore di sviluppo. Questa è una delle nostre carte vincenti e spesso non ce ne rendiamo conto: ce lo spiegano i ricercatori del Massachusetts Institute of Technology in uno studio che ha analizzato le capacità competitive delle imprese mettendo a confronto 500 casi aziendali di tutto il mondo. Lo studio sottolinea che non c’è una risposta unica ai problemi della competitività, ma una pluralità di risposte possibile. E dedica ben cento pagine all’Italia delle piccole e medie imprese come un punto in cui questa capacità umana diffusa diventa un fattore di competizione.
Noi abbiamo la possibilità concreta di rilanciare la nostra competitività se ci focalizziamo su un’impostazione «antropologica» come la creazione del valore d’uso che diventa valore di scambio: ad esempio, come nasce l’imprenditore che genera valore aggiunto, in che modo l’imprenditore italiano riesce a riposizionarsi in un mercato mondiale che esprime una forte domanda verso l’italian concept. In sostanza, dobbiamo rimettere a tema la figura di chi crea valore: da qui, a cascata, si devono ripensare gli strumenti finanziari e fiscali mirati a favore di chi investe, crea, genera occupazione e benessere sociale.
*Presidente Fondazione per la Sussidiarietà
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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