L’America è stufa degli eccessi woke. Inizia la controrivolta?
Da settimane molte università occidentali sono attraversate da manifestazioni di sostegno alla popolazione di Gaza colpita dalle conseguenze dell’attacco israeliano dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre. Queste manifestazioni, nate più o meno pacificamente, sovrastano per numeri e partecipazione quelle in supporto di Israele che invocano la liberazione della Striscia dai terroristi. Con il passare dei giorni, però, gli attivisti filopalestinesi sono diventati sempre più violenti, quando non apertamente antisemiti, tanto che in alcuni campus degli Stati Uniti è stato suggerito agli studenti ebrei di rimanere a casa per la loro incolumità.
La protesta viaggia dall’America all’Italia (dove ci sono state occupazioni e richieste di interrompere le collaborazioni con le università israeliane) e adesso si moltiplicano in Francia. Nei soli Stati Uniti ci sono già stati scontri con la polizia e oltre mille arresti, ad Harvard alcuni studenti hanno sostituito la bandiera americana con quella palestinese e alla Columbia la polizia ha fatto irruzione nel campus occupato.
Le proteste pro Hamas nei campus più woke
Ciò che colpisce delle proteste statunitensi, però, è che stanno proliferando in quelle che sono considerate le università più “selettive”, quelle da cui emerge la classe dirigente del paese: Columbia, Yale, New York University, Stanford, Berkeley. A sottolinearlo, con una punta di disincantato sarcasmo, è stato pochi giorni fa l’editorialista del Wall Street Journal Daniel Henninger: «Per adesso aggiungiamo queste proteste in tende North Face sui quad nei campus da 75.000 dollari l’anno alla sensazione diffusa tra gli americani che il loro paese stia uscendo dai binari».
Una sensazione causata dagli eccessi dell’ideologia woke, dalla fissazione sui criteri di diversità, eguaglianza e inclusione, il taglio dei fondi alla polizia, varie teorie del complotto, l’isolazionismo e la polarizzazione politica egocentrica. Questo insieme di cose, dice Henninger, sta portando sempre più persone a dire basta!.
Il risveglio dal risveglio
E se l’Università della California del Sud, temendo problemi, ha cancellato i relatori dell’inaugurazione dell’anno accademico e ha detto ai destinatari della laurea honoris causa di non presentarsi, «una nota di speranza che si sente ripetere quando si comincia il college è che il sistema americano si autocorregge e, nonostante lo stress ricorrente, si aggiusta sempre. I sondaggi d’opinione suggeriscono che pochi ci credono ancora, ma, evviva, sembra che siamo sull’orlo di una vera controrivolta contro la follia».
Insomma, scrive l’opinionista del Wsj, se una volta si restava in silenzio a osservare i danni del pensiero estremista progressista, nel Paese si iniziano a registrare reazioni comprensibili e giuste:
«La settimana scorsa, in una Camera disperatamente bloccata, il presidente repubblicano Mike Johnson, di fronte alle minacce al suo lavoro da parte del caucus del caos, si è schierato con il caucus del “basta è abbastanza”. La Camera ha approvato progetti di legge per sostenere gli alleati in Ucraina, Israele e Taiwan. Il Congresso non è morto, ancora. Stati e città Dem che sembravano disposti a crollare piuttosto che difendere i propri cittadini hanno iniziato a respingere i movimenti progressisti pro-criminali e anti-polizia».
L’onda lunga di Black Lives Matter, e cioè il movimento Defund the police, ha iniziato da qualche tempo la risacca: «Il Consiglio iperprogressista del Distretto di Columbia, in una città che era diventata un imbarazzante inferno di furti d’auto, ha approvato una serie di misure anticrimine. L’Oregon ha votato per invertire il catastrofico esperimento statale durato tre anni con la depenalizzazione della droga».
E poi c’è Stille che su Rep. dice che alla Columbia è tutto a posto
È la democrazia, bellezza: «In tutti questi posti, le inversioni di rotta da parte dei funzionari eletti sono dettate dalla paura di essere destituiti dagli elettori. Questo è il sistema politico americano che cerca di raddrizzarsi». Anche i Dei iniziano ad avere il fiato corto: molte aziende private stanno ripensando le loro politiche anche grazie al fatto che la Corte Suprema lo scorso anno ha chiesto di togliere il criterio della razza per le ammissioni al college. «Le aziende stanno riscoprendo che i soggetti che hanno più bisogno di inclusione sono i loro clienti. Il colpo più forte è arrivato la settimana scorsa, quando Google ha licenziato 28 dipendenti dopo alcuni sit-in di protesta organizzati negli uffici di New York e in California per un contratto con il governo israeliano. La dichiarazione di licenziamento di Google descrive “un comportamento completamente inaccettabile”».
Una mossa che ha sorpreso molti, considerato l’appiattimento dei vertici dell’azienda di Mountain View sulle posizioni woke e progressiste più in voga. Sempre più segnali dicono che negli Stati Uniti è iniziata una controrivolta. L’eccezione sono le università americane d’élite, che però cominciano a vedere diminuire i propri iscritti e rischiano di perdere molti donatori facoltosi. Robert Kraft , laureato alla Columbia e proprietario dei New England Patriots, ha detto che non darà più i soldi al campus «fino a quando non verranno intraprese azioni correttive» dopo gli episodi di antisemitismo. Poi certo, c’è chi come Alexander Stille che su Repubblica prova a far credere che in realtà nelle università americane va tutto benissimo, le manifestazioni sono pucciose e non c’è mai stata così tanta libertà di espressione come adesso. Colpa della propaganda fascista dei Repubblicani, naturalmente.
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