Sono assolutamente sicuro che Renzi non è come appare. Il problema è che lui non vuole apparire com’è, ma vuole essere come appare: vuole coincidere con il suo linguaggio, con la sua comunicazione. Il risultato è che si impoverisce e fa un torto a se stesso.
Sono certo che il nostro premier non sia un soufflé di luoghi comuni. Ma ha rinunciato alla profondità delle cose, che ad esempio ha attinto studiando Giorgio La Pira.
Mi hanno raccontato dei ragazzi che qualche volta è un altro da come appare. In una università, stupendo tutti per la passione con cui lo diceva, ha spiegato che «il maestro è colui che comunica un’esperienza, non una teoria». Ma allora perché fa così? Perché gioca a palleggiare le parole come una volta si faceva con il tamburello sulla spiaggia? Misteri. Certo ha successo, ma ha successo anche lo schioccare di sillabe senza senso della pubblicità di quella caramella che se butti fuori il respiro ghiaccia la gente. Così fa lui. Ha rinunciato al riferimento tra lingua e realtà. Incanta. Inganna. E anzitutto inganna se stesso.
Renzi non è così, non può essere questa danza intorno a un totem, che a sua volta è uno specchio di quella danza. Occorre un centro di gravità, un nocciolo incandescente, qualcosa di più profondo del discorso. Bisogna pagare le parole che si dicono, partorirle come una donna il bambino. Vale per tutti, ma per il politico di più. Parla come chi è premuto dalle cose, dai drammi e dai desideri. Può essere di natura il più facondo della compagnia, avere una dote naturale strabiliante nel distribuire retorica come la macchina del caffè in autogrill. Michelangelo aveva una facilità di scalpello meravigliosa, ma quando scolpiva sentiva una immensa responsabilità verso la materia, la rispettava. La comunicazione espressa dai Prigioni sta nell’inespresso, ne sortisce un’intensità spirituale tremenda, più densa della materia.
Renzi invece in quest’epoca ricca di lacrime (papa Francesco dixit) non sa piangere, le parole non sono cavate dalla roccia, ma frullate nel Moulinex. E questo è un crimine politico. Anche contro se stesso, perché Renzi non è così.
L’ho compreso perfettamente l’altra domenica, quando ha parlato di Rai dalla Annunziata. Il mattino aveva parlato di scuola, di “buona scuola”, persino di crescita umana che è scopo dell’istruzione. Educazione. (Se permetti, caro Matteo, la definizione “buona scuola” è una truffetta subliminale. Hai messo fuori corso la formula “buono scuola” sovrastandola con la “buona scuola”. Dove buona è un aggettivo sentimentale. Una buona scuola invece è tale se c’è il buono scuola, ma questo non c’è più: inganno semantico). Ecco, dopo aver parlato di buona scuola, di rispetto per la persona, il pomeriggio discute di Rai e della sua riforma. Dice a qualche milione di persone: «Pensiamo che la Rai debba essere il grande motore dell’identità educativa e culturale del paese e in quanto tale non possa essere normata da una legge che si chiama Gasparri». Nella stessa frase c’è “identità educativa” e lo sfregio linguistico di un avversario politico. Qui siamo all’identificazione del male con un nome e con la persona che lo porta. C’è la pretesa di afferrare l’intimo di un uomo e di privarlo della sua essenza unica per farlo coincidere con un pupazzo ideologico.
Ehi, Gasparri la pensa diversamente da te. Ha concezioni sulla vita e la morte poco renziane, probabilmente. Ma qui siamo all’individuazione di un codice genetico dell’anima altrui. Non si dice. Non si fa. Parla in questo modo la statua equestre di un dittatorello, non una persona che ha la responsabilità di guidare un paese; ciò esige magnanimità, quasi pudore nel pronunciare il nome di un altro. Ma Renzi non è così. O no?