Una serata qualunque, un martedì d’autunno nelle miriadi di stazioni televisive americane, a portata di mano del telecomando. Una stazione, quella della PBS, la televisione pubblica che ancora crede nella qualità dei suoi documentari, dei concerti, dei dibattiti dove la voce dei presenti, e le loro idee, bastano a far spettacolo, trasmette un documentario annunciato a voce bassa in fondo alle pagine dei giornali. Poca pubblicità, nessuna fanfara; eppure chi si sintonizza sulla PBS, alle nove di sera, non si stacca più, anzi: telefona agli amici, dicendo loro di accendere, di seguire anch’essi questo documentario magico. La voce si sparge e chi rinuncia ai telefilm della violenza, ai telegiornali e allo sport, non se ne stacca più, fino alle 11 e mezzo, quando fuori il mondo ha i colori della notte fonda, dei taxi che sfrecciano portando a casa chi si è divertito. E alla fine della serata gli indici d’ascolto non mentono: la PBS ha fatto centro, ha fatto scuola e poesia: perchè per due ore e mezza ha narrato la vita di Giovanni Paolo II in uno dei più bei documentari dell’anno.
Occhi neri di Helen, fissi sul Papa del millennio S’intitola “Il Papa del millennio” ed è stato prodotto e scritto da Helen Whitney, una donna newyorkese con degli occhi nerissimi e una cascata di capelli quasi bianchi che le regalano un’aria da intellettuale, e che aveva già vinto un premio Emmy (l’oscar della televisione) grazie a un documentario-ritratto di Bill Clinton e di Bob Dole nella campagna elettorale del 1996. E nei prossimi mesi la vita di Giovanni Paolo II farà il giro delle grandi televisioni di tutto il mondo, perchè, come ha scritto la critica del Boston Globe, “Grazie alla Whitney, per una sera la televisione è stata nuovamente splendida maestra, musa, poesia, regalandoci un prezioso viaggio spirituale”. Helen Whitney sorride: “Volevo mostrare un uomo, un pontefice, che in realtà è molto più complicato di quel che la gente crede di vedere nella sua immagine pubblica. Giovanni Paolo ll si perde tra l’adorazione di chi lo crede santo e la ribellione dei dibattiti della sinistra che lo dipingono come un nemico del femminismo e della libertà individuale. Ma dietro a questi due stereotipi c’è un uomo profondissimo, che volevo scoprire”. Ed è proprio questa sua ricerca, a volte anche psicologica, che fa del suo documentario una pagina indimenticabile della televisione.
“Non pensavo di ricevere così tanti complimenti, invece il mio telefono non smette di suonare e tutti mi vogliono intervistare” spiega la Whitney, “ma l’emozione più grande me l’ha data un uomo che mi ha chiamato da una cabina di un telefono pubblico, dicendomi che aveva visto il documentario e che lui, che per vent’anni era stato agnostico, stava riconsiderando l’idea della fede”. “Fede” s’intitola infatti l’ultimo segmento del documentario: “Giovanni Paolo II non è un uomo dotato di fede” spiega il Monsignor Albacete, “ma è l’identità della fede”.
La parola ai protagonisti La televisione della Whitney è fatta di ricerche (due anni di viaggi e letture per studiare la vita di Giovanni Paolo) e di grandi interviste: il Santo Padre appare infatti nei racconti di chi lo conosce bene, come monsignor Lorenzo Albacete, insegnante di teologia presso il seminario di Saint John, nel Bronx. “Cercavo qualcuno che conoscesse bene il Papa e che sapesse anche spiegarlo ai telespettatori, cercavo insomma un filo portante, un uomo geniale. E un mio amico scrittore mi ha indicato Lorenzo, mi ha detto di chiamarlo. Siamo stati al telefono per alcune ore e alla fine sapevo di aver trovato la persona giusta: Lorenzo non è solo un profondo conoscitore di questo Pontefice ma è anche un pensatore eccezionale, una grandissima mente”. E Monsignor Albacete ricambia il complimento: “Questo documentario è eccezionale: pone delle domande molto profonde sul Santo Padre e cerca delle risposte precise”. Tra gli intervistati vi sono anche numerosi giornalisti come Robert Suro (Washington Post), Eric Margolis (corrispondente romano del Toronto Sun), scrittori come Marco Politi, Robert Stone e un ex prete, James Carroll, oggi giornalista del Boston Globe. E vi sono anche i grandi agnostici, come Germain Greer, musicisti come Gilbert Levine, cantanti di cabaret come Andrea Marcovicci, ebrei come il professor Giacomo Saban, che insegna matematica all’università di Roma o come il Dottor Mark Edelman, sopravvissuto al ghetto di Varsavia e che spiega i rapporti di Giovanni Paolo II con gli ebrei nella sezione del documentario dedicata al rapporto del Santo Padre con l’ebraismo. Il ritratto è profondo e spazia dalla sua storia personale alle sue poesie, dai suoi concetti della donna alla sua fede: Giovanni Paolo non ne esce né come un santo né come un peccatore, nonostante le opinioni di chi crede che stia portando la Chiesa verso una strada sbagliata. Giovanni Paolo II non è soltanto il Papa del millennio, del ventesimo secolo, forgiato dalla storia, spettatore di guerre, stragi e di un mondo che sembra aver perso la fede. È anche un uomo che ha sempre amato gli ebrei, fin dai primi contatti in Polonia, da ragazzino, quando a 19 anni aveva vissuto l’invasione nazista, fino al suo viaggio ad Auschwitz, a solo un anno di distanza dalla sua nomina pontificia e il suo ingresso nella sinagoga romana, primo Pontefice nella storia, dichiarando coraggiosamente che l’antisemitismo era un peccato.
La Polonia (e le donne) di Giovanni Paolo II I sette capitoli del documentario cominciano col “Panorama polacco”, dove viene spiegato come la terra del Santo Padre abbia influenzato il suo carattere e le sue scelte. “Il panorama è quello spirituale, culturale e geografico della sua Polonia: un Paese la cui storia è fatta di perdite, di sofferenze, di un cattolicesimo nel quale le tragedie nazionali diventano redenzione. Non si può capire questo Papa senza capire la Polonia, il Cristo delle nazioni” dice la Whitney. Il documentario prosegue con la vittoria di Giovanni Paolo II sul comunismo, in una sezione intitolata “Solidarity” a cui fa seguito la “Teologia della liberazione” del Centramerica, un capitolo amaro nella vita di questo Pontefice. Il documentario prosegue poi con il capitolo dedicato alle “Donne” e al profondissimo amore del Santo Padre per la Madonna che l’ha spinto, dopo essersi salvato dal tentato assassinio, a portare la pallottola di Ali Agca in processione a Fatima. Ed è in questa sezione del documentario che il Papa del millennio viene attaccato più duramente dalle femministe e dalle intellettuali: “C’è un paradosso fondamentale nella sua visione delle donne” dice Marina Warner, autrice di un libro di successo sul culto della Vergine Maria “Giovanni Paolo è profondamente devoto a Maria, ma quando deve tradurre questo suo amore nei confronti delle donne, che debbono modellarsi sull’esempio di Maria, allora lui pone delle condizioni. Non accetta nessun cambiamento che possa permettere alle donne di svolgere un ruolo attivo nella Chiesa o che possa permettere loro di aver maggiore controllo sulle proprie scelte e sulla propria vita”. La lotta del Santo Padre contro l’uso degli anticoncezionali viene criticata da Germain Greer e da altre, ma c’è chi lo difende, ricordando che il Santo Padre crede che la vita, oggi, abbia perso valore. Aborto, anticoncezionali, eutanasia, pena di morte: tutto sminuisce il significato della vita umana, come il documentario dimostra nella sezione intitolata “La cultura della morte”, la più drammatica delle due ore e mezzo del programma.
Per amore del mondo Il nostro secolo è un secolo di morte: le immagini lo dimostrano senza mezzi termini, con fotografie e spezzoni televisivi dei campi di concentramento, delle bombe atomiche, degli stermini, della violenza urbana: la Whitney costruisce un collage di disperazione e morte, per dipingere il secolo più violento della storia e lo spiega: “Questo è un uomo che crede che ci siano dei pericoli gravissimi dietro al consumismo e al materialismo: pericoli gravi quanto quelli del nazismo e del comunismo. Lui li ha visti entrambi. Ma non è un nemico della cultura moderna, anzi: semplicemente lotta per proteggere il valore della vita umana”. Monsignor Albacete le fa eco: “La frase ‘cultura della morte’ non è esagerata per i nostri tempi e il Santo Padre lo sa: io l’avevo già letta, in uno scritto di Flannery O’Connor: lei diceva che siamo una generazione di polli senza ali. Certo, più appetibili per i consumatori, ma incapaci di svolazzare e perciò di provare emozioni profonde. La nostra spiritualità superficiale ci avrebbe portato, secondo la pensatrice della Georgia, verso la violenza. Oggi, diceva la O’Connor negli anni Sessanta, ci comandano i sentimenti, una tenerezza superficiale che non ha radici e che ci sta portando verso la camera a gas”.