Voi non lo sentite l’urlo di dolore che arriva dall’Armenia?
Parlare di geopolitica qui da noi, poveretti alla periferia degli imperi, sembra un lusso che non possiamo permetterci. La tentazione è questa: non alzare la testa sul vasto mondo, accontentarci del posticino che gli scontri tra le potenze ci hanno lasciato. Custodire l’orto, baciare la sposa e accarezzare il cane, riflettere sul proprio essere «pulvis et umbra» e sull’eventuale eterno destino e accettarlo. Ragionava così Orazio, e il circolo intorno a Virgilio: epicureismo moderato assai prossimo all’odierno nichilismo minimalista, tipo riduzione del danno. Be’ io non ci sto. Credo sia il modo più decente di obbedire al cuore: non accontentarsi del carpe diem, l’attimo fuggente è sì importante, ma non al prezzo di fregarsene della sorte altrui: individui, popoli e umanità intera. Alt! Ho volato troppo su, torno a terra.
Vicino al lago di Sevan, dove guizzano le trote principesse d’argento, nell’Armenia che ha accolto la nostra raminga e pacifica comunità di molokani, la frizione tra imperi fa un rumore percepibile. A un passo da noi l’impero turco si è allargato occupando il Nagorno-Karabakh, il Bosco nero (e lucente) dei fratelli armeni. L’Azerbaigian ha inghiottito questo territorio, piccolo, 4.400 chilometri quadrati, un settantesimo dell’Italia. Ci abitavano 150 mila armeni, se ne sono andati in tanti. Alcuni tornano. Per fortuna la Russia ha bloccato la vittoria totale dello Stato che formalmente ha per capitale Baku, ma in realtà questa città sul Caspio è una sede staccata di Ankara-Istanbul, dove regna il nuovo sultano Erdogan.
Noi, armeni e molokani, a che impero apparteniamo? I turchi ci vogliono come schiavi dentro la loro sfera di influenza e sotto il tallone degli azero-turchi. In passato l’impero ottomano ci sterminò senza che i successivi governi riconoscessero mai il genocidio. Non è che la prospettiva possa trovare la nostra tollerante benevolenza. Il fatto è che l’Europa e gli Stati Uniti, immemori dell’essere noi il punto lontano ma profondo delle comuni radici cristiane, ci hanno abbandonati. Ci tocca sperare in Putin, che si ricorda di essere ortodosso, ma a sua volta vuole giocarsi la carta Erdogan contro gli americani e la Nato, che hanno la Turchia ospite in casa.
L’Italia a sua volta non sa che fare. Perché con la Turchia si sta spartendo la Libia. A lei toccherebbe la Tripolitania insieme al Qatar e in alleanza coi Fratelli musulmani. A Russia-Egitto-Francia spetterebbe la Cirenaica. Il Sud della Libia come l’intera Africa è invece sotto lo sguardo goloso del padrone cinese. Pochi se ne rendono conto, ma ormai – salvo qualche residuato di potenza neocoloniale francese – l’Africa è una questione a due, tra forze islamiche egemonizzate da turchi e Cina.
Ora l’Italia, nell’impalpabilità dell’Unione Europea, che ruolo positivo può avere per la pace anche di noi molokani? C’è un nuovo spazio di azione. L’America di Joe Biden (che ha posizioni disastrose su tante cose che ci sono care) non ha ancora manifestato la sua politica globale e quale attenzione e forza riverserà in una zona tornata centrale negli equilibri del mondo oggi in grande vibrazione, come un’auto cui stanno ballando i cerchioni.
Biden non ha forse alternative che appoggiarsi a Roma, oggi rappresentata da una personalità di prestigio indiscutibile come Mario Draghi. Il problema è che finora gli Stati Uniti (vedi i due Bush, i due Clinton e Obama) quando sono intervenuti in Medio Oriente e in area mediterranea hanno portato solo guerra e devastazione. Voi italiani siete miei amici. Come potete accettare che – giustamente onorando come eroi l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovaccio e l’autista Mustapha Milambo trucidati in Congo a capitale Kinshasa – il ministro degli Esteri Luigi Di Maio non abbia detto nulla sul dominio cinese sulle ricchezze naturali di quei territori e la gigantesca fornitura d’armi dell’Azerbaigian (=Turchia) a governi di quelle zone come ad esempio il Congo-Brazzaville? Strani intrecci geopolitici. La pace non può coincidere con il lasciarsi cadere le braccia. Imbelle non vuol dire contro la guerra, ma indifferente al grido delle vittime.
Di certo non possiamo più tollerare il dominio dell’ignoranza. E che resti aperto l’ufficio svendita di popoli e nazioni, con succursale – parlo a voi che parlate questa bella lingua – a Roma.
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