“La verità è divisiva”. Innanzitutto lo dicono quelli che alla verità non credono o credono poco, pensando che si debba avere delicatezza e riguardo per quelli che potrebbero non essere d’accordo. Non quelli che non sono d’accordo, ma che potrebbero non essere d’accordo. Secondo me tra il non credere o il credere poco alla verità non c’è molta differenza. La fede nella verità segue la legge del tutto o nulla, o ci si crede, oppure no. Una delle ragioni della sfiducia nella verità, forse la principale, è che la verità è così grande, così complessa da essere irraggiungibile, per cui chiunque pensi di comunicarla, cioè in qualche modo possederla, fa un atto di enorme presunzione, insopportabile. «Dio [cioè la verità], se c’è, non c’entra», dice Cornelio Fabro della mentalità prevalente; non vale la pena pronunciarsi su di essa, perché è impossibile.
Mi chiedo che cosa questi atei o agnostici pensino del valore di ciò su cui riflettono, parlano o addirittura scrivono. Si tratta di stati d’animo, opinioni o risultati di studi e ricerche? Che durata, resistenza, utilità hanno? Anche il risultato scientifico è sottoposto alla legge della falsificabilità dell’ipotesi, ovvero vale fino a che non è dimostrato il contrario. Nulla è più provvisorio della scienza come insegnano i maestri del dubbio. Allora perché si discute, magari accanitamente, per un’affermazione, un’analisi piuttosto che un’altra? Parlamenti, giornali, libri, trasmissioni più o meno culturali e adesso anche i social costituiscono un enorme palcoscenico, che tutti i giorni mette in onda un accapigliamento generale, con costi umani ed economici enormi sia per il mantenimento di tali mezzi, sia per gli errori e le perdite di tempo cui non raramente si va incontro. Poi ci sono le guerre. In guerra si uccide e si muore; si è disposti a dare il massimo, la vita, per ciò per cui si milita. In generale ci si comporta come se la verità esistesse, come se ce ne fosse il bisogno a prescindere dalla convinzione con cui si crede. Mentre tutto se ne va. La presunzione dell’uomo di padroneggiare se stesso, la natura e la società si risolve in un grande vuoto, un nulla ingiusto per lo sforzo di vivere. Non ci si pensa, ma alla fine è così.
Dal mio punto di vista, l’interrogativo più rilevante è che anche i credenti, i cattolici, quelli italiani che conosco di più, pensano che la verità sia divisiva e che si debba comunicarla con molta prudenza perché molti potrebbero non essere d’accordo e quindi distanziarsi da essa invece che avvicinarsi. Anzi alcuni teorizzano che debba essere la libertà dell’io, senza alcuna interferenza esterna, ad arrivare alla verità e a convincersi al riguardo. Niente “guru”, fatte salve le prediche per cui il guru non è necessario, ma è evidentemente necessario quello che predica. Le esitazioni cattoliche a manifestare con decisione quello in cui si crede sono giustificate dall’“amore”, che è “verità” più grande della verità tradizionalmente concepita, con i suoi contenuti dottrinali, troppo rigidi a fronte della multiformità culturale ed espressiva del mondo moderno. Si fanno addirittura sinodi, assemblee attraverso cui in un cammino comune – traduzione della parola “sinodo” nella sua origine greca – si possano stabilire criteri per andare incontro alle esigenze degli uomini e donne di oggi.
Il caso della “teoria del gender”
Così si dibatte sulla benedizione, in pratica il riconoscimento, delle coppie gay, l’ammissione delle donne al sacerdozio e a ruoli di maggiore responsabilità, la possibilità di valorizzare le istanze della “teoria del gender”, secondo la quale la sessualità non è una dote di natura, ma è stabilita dalla percezione soggettiva di sé come maschio o femmina a prescindere da quel che si è. A quest’ultimo proposito vale la pena di ricordare come nelle università e nelle scuole italiane sia stata ampiamente riconosciuta la possibilità della “carriera alias”, ovvero la possibilità di essere identificati con un nome – per esempio nel libretto universitario – maschile o femminile a seconda non dei propri genitali, ma di quel che ci si sente. Non si sono udite proteste o prese di posizione di studenti e insegnanti cattolici in merito. Una delle ragioni di tale silenzio è che “uno è più della sua inclinazione sessuale” e va amato, o come si suole dire “incluso”, accolto come tale, perché Dio lo ama e lo ha voluto come è.
Mi sto soffermando in modo particolare sulla relazione tra verità e sessualità perché dal punto di vista delle conseguenze è forse la più decisiva. La sessualità è, come mi sono permesso di dire in altra sede (vedi Ed io che sono?, La Fontana di Siloe, 2016), la base pulsionale dei rapporti tra le persone, genitori e figli, amici, fidanzati, coniugi, conviventi e anche semplici conoscenti. Come mostra la nostra società, assai più libertina, o se si vuole meno ipocrita, delle precedenti, il sesso è dappertutto, esibito pervasivamente e senza reticenze. Si tratta tuttavia di un’esibizione, che, proprio perché marcata, va insieme alla messa in guardia dalla violenza fisica e psicologica del sesso praticato con la manipolazione e la violazione della volontà del partner. Perché il sesso, proprio in quanto possibilità di soddisfazione, felicità e generazione, è anche fonte di violenza, malessere e frustrazione. Per tali motivi gli atteggiamenti superficiali e trasgressivi sono gravi; ancora di più lo sono nei giovani, dato il tumulto e non raramente l’incertezza che segnano il loro sviluppo.
Si parla della post-modernità come superamento dei modelli chiusi, dettati dalle grandi verità e dalle ideologie, come crollo delle evidenze. In realtà, proprio per il loro fondamento visibile e verificabile, le evidenze non crollano, ma possono perdere di significato: ciò che prima valeva adesso non vale più o addirittura vale il contrario, ma non perché scompare, perché cambia il giudizio su di esso. Per l’appunto, ciò è successo esemplarmente nell’ambito della sessualità. Come fenomeno non di pochi ma di massa.
Adaequatio rei et intellectus
Già in un articolo su questo giornale del settembre 2020, commentavo un intervento di un importante sociologo americano, Ronald Inglehart, sul crollo verticale della religiosità nei paesi più sviluppati. L’autore, sulla base di ricerche affidabili, attribuiva tale crollo al «mutamento delle norme che governano la fertilità umana», divorzio, aborto e omosessualità come rifiuto, opposto da gran parte della popolazione, ai limiti posti alla libertà sessuale. È l’esito di un lungo processo in cui l’uomo si è sostituto a Dio stabilendo «una dittatura mondiale di ideologie apparentemente umanistiche», che «scomunica socialmente» chi non le riconosce (Una vita, intervista del giornalista tedesco Peter Seewald a Benedetto XVI, 2020). Anche Luigi Giussani si è espresso nella stessa direzione in La coscienza religiosa dell’uomo moderno (Jaca Book, 1985).
Per quel che concerne la diffusione di tale mentalità nel nostro paese vale la pena di ricordare la sentenza n. 221/2015, con cui la Corte costituzionale, dando un’interpretazione della legge n. 164/1982, ribadisce che «il trattamento chirurgico modificativo dei caratteri sessuali primari non costituisce prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione, ma è solo un possibile mezzo, rimesso alla scelta del soggetto che chiede la rettificazione, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico». La soggettività è tutto.
Ancora: nel nuovo Contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl), siglato lo scorso 2 novembre, relativo al comparto sanità, all’articolo 41 si prevede il riconoscimento di un’identità alias al dipendente che ne faccia richiesta tramite la sottoscrizione di un accordo di riservatezza confidenziale. Si capisce perché laici impegnati, preti e teologi, date le chiese sempre più deserte e svendute per diventare sale riunioni, dancing, ristoranti e simili, siano tentati di andare incontro alla nuova sensibilità, se non negando, dimenticando la verità che sono chiamati ad annunciare.
Torniamo a quanto detto sopra circa la verità che è innanzitutto “amore”. L’affermazione non è sbagliata, si rifà a quanto dice Gesù: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22,37-40). Ci si deve allora chiedere in che cosa consiste l’amore, come amore della verità, in termini soggettivi – amore che io ho per la verità – e oggettivi – amore che proviene dalla verità. La definizione più convincente di verità è per me quella di san Tommaso, adaequatio rei et intellectus, corrispondenza di ciò che accade (realtà) e desiderio. Corrispondenza non è solo ciò che piace ma ciò che è per te, come la medicina amara per l’ammalato o la correzione per chi sbaglia, da cui la definizione di moralità come amore alla verità più che a sé stessi (ciò che piace), perché non possediamo la verità, ma dipendiamo da essa.
Una proposta alla libertà
Così l’amore all’altro non è semplicemente un’emozione o una carezza, ma anche un giudizio che impegna a cercare insieme il destino comune, appunto, la verità per cui siamo fatti. Questo giudizio può essere affascinante, ma anche duro «come mordere il sasso» (Miguel Mañara, Milosz). Di certo non è una clava per abbattere l’altro, ma una proposta alla libertà. È un atto di fiducia nella libertà, data da Dio per riconoscere e scegliere la verità, per cercare e comprendere il significato di cose e persone.
Non dire all’altro la verità per timore che si allontani è considerarlo ipodotato, incapace di capire quel che lo circonda. D’altra parte è esperienza comune che si può accogliere ed essere amici con chi non è d’accordo. È anche esperienza comune che la verità può essere divisiva, ma ciò non è per metterla da parte e sospenderla, ma per richiamare chi la propone a diventarne più cosciente e chi la rifiuta a essere più aperto e disponibile. C’è sempre una ragione che va riconquistata, magari con tempo, sofferenza e sacrificio, ma lì sta il sale della vita. Non bisogna avere paura della verità. È ciò di cui noi e tutti abbiamo più bisogno.
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