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Il trucco delle province “abolite” mostra la vera stoffa (statalista) di Renzi. Saranno contenti almeno Rizzo e Stella?

Il consigliere comunale milanese Matteo Forte spiega perché la riforma Delrio, varata al grido di "tagliamo i costi della politica", in realtà comporta più spesa per i contribuenti e meno democrazia.

Matteo Forte
16/09/2014 - 4:00
Politica
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Matteo Forte, autore di questo articolo, è consigliere comunale di minoranza a Milano

È paradossale, ma proprio quel Renzi che ha spodestato Letta da Palazzo Chigi al grido di “affamiamo la bestia” si è trasformato nell’ennesimo esponente del partito della spesa. Non solo perché, come evidenziano le analisi dei flussi elettorali dell’Istituto Cattaneo, il suo Pd è votato dal 35 per cento dei pensionati e dal 53 dei dipendenti pubblici. E non solo perché, come dimostra la vicenda estiva del commissario Cottarelli, la spending review ad altro non servirebbe che ad alimentare nuova spesa (nella fattispecie il bonus di 80 euro in busta paga che molto ha contribuito al risultato del Pd alle europee e davvero poco a far ripartire i consumi interni, scesi del 2,6 per cento a giugno).

È soprattutto nelle pieghe delle riforme sbandierate dal presidente del Consiglio, e spinte dalla retorica del risparmio per le finanze pubbliche, che si notano i costi che i contribuenti dovranno sostenere.

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Si prenda la “legge Delrio”. Nota per abolire le Province e istituire le Città metropolitane, in realtà la mini riforma degli enti territoriali – di cui Renzi nel suo discorso programmatico al Parlamento si augurava l’approvazione in tempi stretti – crea solo scatole vuote. Infatti non abolisce le Province, ma le trasforma in enti di secondo livello, differenziandole poco o nulla dalle istituende Città metropolitane. Ebbene quella legge, che proprio in nome dei tagli ai costi della politica si limita a rendere gratuite le cariche elettive dei nuovi livelli istituzionali, prevede un paio di cosucce non di poco conto.

All’articolo 104, per esempio, abroga l’obbligo di unione dei piccoli Comuni con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti, stabilito in un decreto legge del 13 agosto 2011 (governo Berlusconi). Evitando la diatriba circa il fatto che non sarebbe stata competenza dello Stato, ma delle Regioni, e che semmai la fusione si sarebbe dovuta incentivare e non imporre, rimane il fatto che il paese degli oltre 8 mila municipi sostiene spese di funzionamento per troppe amministrazioni. Con la Delrio continuerà a farlo per un quarto dei Comuni, al contrario di quanto già stabilito dallo Stato.

In secondo luogo la riforma aumenta la quantità di consiglieri comunali, che il succitato decreto 138 aveva previsto di diminuire: per le città fino a 3.000 abitanti passa dai 5 previsti nel 2011 (al netto dei piccoli Comuni che venivano soppressi) a 10, e li porta a 12 per quelle comprese tra i 3.000 e i 10.000 abitanti, contro i 7 e i 9 in cui erano suddivisi gli stessi in precedenza. Un bel regalo ai ras locali dei partiti.

Si dirà: è questione di democrazia, e la democrazia ha un costo. Eppure proprio le riforme istituzionali di Renzi, a detta di molti autorevoli osservatori, restringono il campo della legittimazione e partecipazione democratiche. Questa estate, con la riforma che ha sancito la non eleggibilità dei membri del nuovo Senato («inconcepibile» l’ha definita su Repubblica il costituzionalista Alessandro Pace), è stata messa mano anche agli strumenti di democrazia diretta. Sono state quintuplicate le firme necessarie per le leggi di iniziativa popolare (250 mila), la cui discussione in Parlamento è poi affidata ai regolamenti delle Camere, insieme all’aumento a 800 mila delle sottoscrizioni per sostenere una proposta di referendum. Considerando «che già adesso, per allestire un referendum, serve un movimento organizzato e ben determinato», ha spiegato Michele Ainis sul Corriere della Sera, «significa che da domani il referendum sarà un’arma a disposizione dei partiti, non dei cittadini».

Saranno contenti Rizzo e Stella
Stesso grave problema si presenta per la Delrio. Le Città metropolitane sono un intervento statale che atrofizza l’autonomia delle comunità locali. Nella legge 142 del 1990, dove per la prima volta il legislatore parlò di aree metropolitane, si affermava il principio che sarebbero sorte su iniziativa dei Comuni. Nella legge Delrio sono istituite dall’alto per decreto. E al contrario di quelle previste nel 1990, sono prive di giunta, cioè di un organo con reali poteri esecutivi, oltre a non avere alcuna autonomia impositiva. L’elezione è di secondo grado, ovvero Conferenza e Consiglio metropolitani sono eletti da sindaci e consiglieri dei Comuni dell’ex Provincia.

L’unico organo che rappresenta il territorio e riceve una investitura popolare (la Conferenza, composta da tutti i primi cittadini dell’area) non è dotato di alcuno strumento con cui formulare un giudizio politico su sindaco e Consiglio metropolitani, che sono svincolati da qualsiasi rapporto di fiducia. È davvero un problema di sostanza, che svuota di senso il concetto stesso di autonomia. Non pochi costituzionalisti hanno espresso dubbi. Tra loro Carlo Padula, convinto che la Delrio «viola» la Carta europea delle autonomie locali, trattato internazionale ratificato dall’Italia nel 1990 (cfr. www.gruppodipisa.it).

Insomma, le vere riforme strutturali finalizzate al taglio della spesa sono di là da venire. Il premier privilegia operazioni di facciata che soddisfino la pancia di un’antipolitica di maniera, alimentata dai vari Stella e Rizzo. Tuttavia il prezzo è alto, segnato da un brusco ritorno a un forma statalista di potere dove gli spazi di democrazia reale si riducono significativamente.

Tags: Antipoliticacittà metropolitanacittà metropolitaneCorriere della SeraCosti della politicaGian Antonio StellaGraziano Delriolegge delrioMatteo Renzimichele ainisMilanoPdrepubblicariforma senatoriformesergio rizzospending reviewspesa pubblica
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