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Tre uomini (bianchi) a zonzo in Centrale nel giorno del blitz

Milano. «Restiamo solo io a bocca aperta col gelato che cola, il mio amico che sta telefonando e l'altro mio amico che guarda per aria, quando nell'etere si materializza una falange ordinata di poliziotti in assetto antisommossa»

Pier Giacomo Ghirardini
03/05/2017 - 13:54
Interni
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immigrati-stazione-centrale-milano-controlli-2-ansa

Ieri mattina, martedì 2 maggio 2017, ero a Milano. Esauriti gli impegni io e due miei amici ci apprestavamo a tornare con il treno delle 15:20 ma arrivati anzitempo alla stazione, abbiamo deciso di sederci un poco al sole nell’enorme piazzale antistante la Stazione Centrale, assieme alla (non troppo) varia umanità che pareva sostare in permanenza sui lunghissimi gradoni di pietra che contornano le grandi aiuole di questo spazio pubblico. Dico «(non troppo) varia umanità» perché, come puoi immaginare, sul biancore di questa spianata risaltava un unico colore: il nero di centinaia di giovani maschi africani, vestiti di poveri abiti neri, accampati ad aspettare che passasse l’ennesima giornata, a veder sfilare il va e vieni dei pendolari, dei turisti, dei passeggeri. Se avessi visto la scena dalla prospettiva del padreterno, formavano quadrati regolari, ordinati, occupando tutti o quasi i teoricamente moltissimi posti a sedere in questa piazza d’armi all’ombra del Pirellone. Solo qualche turista tedesca, a piedi nudi, se ne stava sull’erba. E anche noi tre, ci siamo messi seduti a prendere il sole che il Buon Dio continuava inopinatamente a far splendere sopra tutti noi, neri spiaggiati, bianchi travet o turiste tedesche che fossimo.

Certo, non siamo stati tranquilli, più di tanto: ora uno che chiedeva una sigaretta, l’altro una monetina, l’altro ancora che vende quegli assurdi bastoni per attaccarci il cellulare e farsi, come li chiamano, i «selfie» (ma non eravamo cinesi e non c’era alcuna torre di Pisa da immortalare sullo sfondo delle nostre meno immortali facce soddisfatte dal turismo globale), chi chiedeva ancora una monetina, chi ti vendeva un accendino (ma ne ho già due in tasca, il vizioso che sono), un altro ancora che ti vendeva ancora l’asta famosa, imperterriti e rassegnati, confidenti solo nella legge statistica dei grandi numeri, secondo la quale l’unica possibilità di ottenere un successo quando la probabilità è remotissima è quella di reiterare i tentativi fino al tuo sfiancamento e fino allo sfiancamento del prossimo tuo. Poi, certo, ce ne sarà stato anche qualcun altro che non vendeva più accendini ma che si scaldava solo al sole del rancore o confidava, più concretamente nella provvidenza di qualche capo banda, di qualche lesto, di qualche bravaccio. Ma la folla, la folla era qualcosa da vedere. Pecore, pecore e pecore senza pastore. Un grande mercato di schiavi dove gli schiavisti e i clienti avevano dato forfait, magari annunciato la cassa integrazione e la prossima definitiva chiusura della premiata ditta. Non si raccattano pommarole sui graniti di Milano, né si trovano pagnotte per terra, come le trovò Renzo. Anche loro devono aver capito che non ce n’era più per nessuno nel paese di bengodi. Schiavisti, clienti e schiavi. Ma qui erano arrivati.

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Al che, dato che l’orologio era lento e il sole scaldava, vado a pigliarmi un gelato (sono vizioso, lo ripeto) e ritorno poi dai miei amici bianchi che ritrovo subito in quell’umanità colore dell’ebano, quando improvvisamente, resto gelato come da un turbinio improvviso, un frullare come di ali: decine, centinaia di questi giovani neri corrono, saltano come un branco di gazzelle, leggeri, uno addirittura sorvola d’un balzo e di un buon mezzo metro il mio amico seduto con un’agilità naturale e performance quasi olimpionica, sciàmano, si ritirano come risucchiati da una forza misteriosa, svaniscono in massa verso il lato destro del gran piazzale, non una voce umana, non un urlo, neanche il calpestio: l’unica cosa che mi è rimasta impressa è la corsa a falcate di una elasticità prodigiosa, allenata, ordinatissima, innata, animale. Sì questa è la parola impronunciabile, animale.

Restiamo solo io a bocca aperta col gelato che cola, il mio amico che sta telefonando e non si è accorto di nulla e l’altro mio amico che guarda per aria, quando nell’etere si materializza una falange ordinata di poliziotti in assetto antisommossa, casco, scudo trasparente, manganello. Li guardo, non ho ancora collegato, uno che deve essere il capo mi agita il manganello sotto il naso: «Sloggiare anche te, mister!», trascino via i miei amici più rintontiti di me e ora vedo che tutta la grande spianata bianca è orlata dall’azzurro dei poliziotti e ci sono muri di furgoni azzurri della polizia che impediscono qualsiasi fuga.

Sarei pronto a giurarlo, io comunque non ho visto uno spintone, né una bastonata, né uno stiracchiato via in malo modo o addirittura sanguinante, niente di tutto questo. Quando la paranza azzurra si è richiusa per radunare questi pesci, si è rinnovata la sensazione di una caccia dove i cacciatori contornavano il branco ma – straordinariamente – non pareva esserci alcun contatto fisico. Ora la scena è mutata, i poliziotti hanno formato come una nassa, una fila lunghissima serrata da una parte e una fila parallela serrata dall’altra e al centro, comunque molto distanziati fra le due file, ora una schiera di neri marcia, dinoccolata, facce per nulla turbate, come se si fosse giocato ad acchiapparello o come una immensa squadra di calcio scendesse in campo, sì qualcheduno pareva fino divertito del momentaneo svago, ma ancora, terribile era l’immagine delle pecore senza pastore, portate ad inutili stazzi, dove li avrebbero identificati, si fa per dire (forse era per quello che a molti scappava da ridere), dove li avrebbero radunati per magari liberarli in pascoli dove non c’è più erba né acqua.

Foto Ansa

Tags: immigratiMilanopoliziastazione centrale
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