E’ una piccola città sull’Ebro, in Catalogna. Per le guide turistiche è un posto che si può tralasciare. E davvero Tortosa è modesta con le sue case grigie. Ma si alza e guadagna il cielo, dai vicoli angusti, la mole di una straordinaria cattedrale. La facciata barocca è sbarrata. Poco oltre però un andito nascosto porta in un chiostro più antico, dal sapore cistercense. In mezzo zampilla una fontana. E di qui una porta, e una cappella, in un giro labirintico, finché ti si spalancano davanti, alte, oscure, le navate gotiche nascoste dietro la apparenza barocca di Santa Maria di Tortosa.
Dentro, un buio profondo ti avvolge tra i banchi e i confessionali secolari. Solo un po’ di luce dall’altare e dalle cappelle laterali dove un Cristo di legno giace nel Sepolcro, e una pala quattrocentesca mostra Trasfigurazione, Resurrezione, Giudizio finale, esortando antichi fedeli a salvar l’anima dall’inferno. E quella oscurità che ti avvolge incrinata soltanto da bagliori di tabernacoli d’oro, la riconosci, è la Spagna che c’era una volta, e non c’è più.
Dove ti immagini, in ginocchio, uomini con le facce dei Goya, o di El Greco, anime inquiete a pregare negli ultimi giorni, avviandosi alla fine di vite non risparmiate.
Ma ciò che ti meraviglia nella angusta, piccola Tortosa è quella grandissima cattedrale, piantata come un pugno in mezzo ai vicoli stretti.
Chi volle, in quello che allora era solo un villaggio sull’Ebro, questa chiesa imponente fra le case di sassi e di legno? Romanico, gotico, barocco, l’alchemia di stili dice di generazioni che una dopo l’altra hanno innalzato la cattedrale. Enorme, padrona e maestra.
Bellissima, come le chiese dei re. Per battezzare i figli e benedire i morti, sotto l’oro del Giudizio finale. La chiesa cattedrale centro di tutto, memoria di ognuno, in quella Spagna – e Francia, e Italia – che non c’è più.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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