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«Ti prego Hollywood, riabilita Mel Gibson. Non è l’uomo che credi». Firmato Allison Weiner, giornalista ebrea

A dieci anni dall'uscita della "Passione di Cristo", il ritratto-appello di una cronista che per mesi ha attaccato dalle colonne del New York Times «l'ubriacone antisemita e omofobo». Prima di conoscerlo davvero

Redazione
13/03/2014 - 3:00
Spettacolo
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È ora che la politicamente correttissima Hollywood perdoni il suo più scandaloso (e talentuoso) “peccatore”, Mel Gibson. A dieci anni dall’uscita de La passione di Cristo, dopo averlo a lungo furiosamente attaccato dai massimi pulpiti della stampa Usa (New York Times, Entertainment Weekly, Newsweek), la giornalista ebrea Allison Hope Weiner ha scritto per Deadline un lunghissimo, appassionato ritratto del pluripremiato e poi emarginato attore e regista per chiedere allo scintillante mondo del cinema di dargli finalmente «un’altra occasione». Mel Gibson – scrive Weiner – «è rimasto abbastanza a lungo nella cuccia».

LA CADUTA. Gibson, ricorda Weiner, una volta era «la più grande stella di Hollywood», ha vinto non per caso cinque premi Oscar (con Braveheart) e in totale con i suoi film ha fatto incassare ai botteghini qualcosa come 3,6 miliardi di dollari. La stessa Passione di Cristo si è rivelata un’operazione di formidabile successo, un record mondiale assoluto per una produzione indipendente (612 milioni di dollari di incassi). Eppure è stata la sua maledizione: dalla sua uscita nel 2004, «Gibson non è stato più ingaggiato direttamente da nessuno studio». Le sue famigerate sparate sugli ebrei e i selvaggi sfoghi contro la giovane fidanzata Oksana Grigorieva, una volta carpiti e divenuti pubblici, «lo hanno reso persona non grata» come nessun altro prima, continua la giornalista citando esplicitamente i casi Polanski e Tyson. Tuttavia Gibson non merita questo trattamento, sostiene Weiner. E non solo perché «ha ancora molto da offrire a Hollywood come regista», ma anche perché lui non è affatto la persona di cui parlano i giornali.

«GIUDIZI SBAGLIATI». Weiner scrive in prima persona e spiega: «Disprezzavo Gibson e pensavo che fosse un ubriacone negazionista, omofobo, misogino e razzista, ed era quello che scrivevo». Poi è successo qualcosa di imprevedibile: la brillante giornalista ebrea e l’ubriacone antisemita sono diventati amici. «Ho dovuto rivedere i miei giudizi impietosi. (…) Ho potuto conoscere un uomo intelligente che esprimeva sincera empatia verso le persone che aveva ferito», pur non rinunciando a «contraddirmi e sfidarmi». Del resto «è difficile riuscire a conoscere qualcuno per davvero in un contesto giornalistico», ammette Weiner. Ci è voluta un’amicizia per vincere i pregiudizi: «Gibson non ha mai vacillato né giocato sull’ambiguità quando l’ho affrontato, che il tema fosse il suo alcolismo, le sue idee politiche o il suo rapporto con le donne. Ben presto ho capito che la mia valutazione giornalistica su di lui era sbagliata».

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MEL AL BAR MITZVAH. Gibson infatti non è antiseminta secondo Weiner. Anzi, la giornalista ricorda il suo tentativo, poi naufragato, di girare dopo The Passion un film su Giuda Maccabeo. Ma soprattutto racconta che una volta è stato lo stesso Gibson a chiedere di «incontrare la mia famiglia in occasione del bar mitzvah di mio figlio. Immaginate la scena: una stanza piena di ebrei. Ed ecco che entra la persona che, nel loro immaginario, potrebbe essere il più celebre antisemita d’America». Ebbene «prima che tutto fosse finito, l’ho visto chiacchierare con molti dei miei parenti, che si sono trovati davanti un uomo simpatico, gentile e affascinante, non il demonio di cui avevano letto».

IL RABBI IN SEGRETO. Ovviamente Gibson non odia gli ebrei e non è un negazionista, scrive la giornalista riportando colloqui personali avuti con lui, e le famose offese antisemite rivolte all’agente di polizia che lo arrestò nel 2006 per guida in stato di ebbrezza, erano solo le scomposte reazioni di un alcolista che stava divorziando dalla madre dei suoi sette figli e si riteneva «attaccato a livello personale» da rappresentanti delle comunità ebraiche di mezzo mondo per il film da lui più sentito. Per di più, rivela oggi Weiner, il regista della Passione di Cristo in seguito a quell'”incidente” ha voluto incontrare di persona molti leader ebrei: «Mi ha dato i loro nomi quando glieli ho chiesti, ma mi ha chiesto di non pubblicarli perché non vuole che si pensi che li stia usando».

NON È UN CHIERICHETTO. Ovviamente, aggiunge la cronista, «non credo che Gibson sia un chierichetto». Del resto «ci vuole un certo tipo di persona per fare film dell’intensità di Braveheart, La passione di Cristo e Apocalypto». Ma il trattamento che gli hanno riservato i colleghi è comunque sproporzionato, insiste Weiner. La quale, tra l’altro, dopo alcune «indagini svolte per mio conto», si è convinta che anche le presunte violenze subite dalla Grigorieva da parte di Gibson siano poco più di una montatura studiata per spillargli molti quattrini. «Gli ho chiesto perché non si è difeso quando sono usciti i nastri dei loro litigi», scrive la cronista. «Perché non ha smentito chi lo accusava di essere pazzo? Lui ha fatto spallucce e ha detto che le sue dichiarazioni sembrano peggiorare le cose. Perciò continua a non dire nulla».

Tags: allison hope weinerapocalyptoebreihollywoodla passione di cristomel gibsonnew york timesnewsweek
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