I terroristi partiti dall’Europa per combattere con l’Isis vogliono tornare. Ma non sono pentiti

Di Leone Grotti
16 Febbraio 2019
Proprio come la giovane inglese Shamima Begum, anche Samir Bougana, italomarocchino nelle mani dei curdi, chiede di tornare in Italia dopo aver combattuto con i tagliagole

Il Califfato è agli sgoccioli. L’ultima roccaforte dello Stato islamico in Siria, Baghuz, sta per cadere e i paesi europei si trovano già di fronte a un dilemma: cosa fare dei terroristi islamici con passaporto europeo andati a combattere con l’Isis e che ora chiedono di tornare? Non è un solo un problema di Francia, Germania, Belgio e Regno Unito, da dove sono partiti la maggior parte dei foreign fighters. Il tema infatti riguarda molto da vicino anche l’Italia.

«ERA MIO DOVERE DI BUON MUSULMANO»

Ieri La Stampa ha intervistato in esclusiva a Tel Abyad, Siria, Samir Bougana, italiano di origini marocchine di 24 anni attualmente detenuto in carcere dai curdi. Dopo aver vissuto a Piadena, in provincia di Cremona, nel 2010 si è trasferito in Germania a Bielefeld. Qui si è radicalizzato fino a maturare la decisione di partire per la Siria nel 2013. Ora dice di volere tornare in Italia, è disposto a scontare la sua pena in un carcere italiano, ma dall’intervista non sembra affatto pentito di avere intrapreso la strada del jihad armato.

«In Germania ho iniziato a frequentare un po’ di moschee, poi, quando è iniziata la guerra in Siria, ho ascoltato su internet molti discorsi degli sceicchi», racconta. «Ho pensato che dovevamo aiutare questa gente, era un dovere di buon musulmano. Avevo 19 anni quando è iniziata la radicalizzazione, ho iniziato a sentirmi coinvolto. Nel 2013 ho visto tanti partire, così mi sono deciso, i miei genitori non sapevano nulla. Sono partito con mia moglie, tedesca di origine turca».

«NON HO MAI COMBATTUTO»

Bougana è stato inviato prima a Deir Ezzor, poi a Raqqa, ex capitale siriana del Califfato. «Facevo parte di un’unità di polizia Ribat (in realtà significa nucleo di prima linea, ndr), facevo pattugliamenti soprattutto la notte. Inoltre assistevo la gente fornendo generi di necessità». Assicura di «non avere mai combattuto: io ho paura dei bombardamenti», anche se le sue affermazioni sono difficilmente dimostrabili.

Dopo l’intervento della Russia e l’inizio dei bombardamenti, «è cambiato tutto. Ti svegliavi e non sapevi se saresti sopravvissuto. Dal 2016 ho iniziato a pensare che forse era l’ora di uscirne». Non sono le stragi compiute dai tagliagole islamici ad averlo convinto, né le punizioni previste dalla sharia cui assisteva («ho visto solo tagliare la mano a un ladro»), ma la comprensibile paura di morire.

BOUGANA NON È AFFATTO CAMBIATO

Chi doveva aiutare lui, la moglie e i tre figli (5, 3 e 2 anni) a scappare attraverso la Turchia però l’ha venduto ai curdi, che l’hanno incarcerato. «È difficile, una vita dura. Io sono cresciuto in Italia, spero di uscire da qui, anche se andrò in prigione in Italia è sicuramente meglio». Io, aggiunge, «penso di essere stato un terrorista, non così grande, però adesso è finita, sono uscito e voglio tornare a una vita normale». Il giornalista gli chiede se sia pentito, ma riceve una risposta ambigua: «Sono pentito di essere venuto qui. Ho visto come è questa vita, ho avuto paura delle bombe, avevo paura per me e i miei figli. Io rimango musulmano ma non voglio avere più a che fare con la guerra».

Ora che lo Stato islamico è stato sconfitto, svanito il sogno del Califfato, insomma, Bougana vuole tornare in Italia. Ma dalle risposte è chiaro che la sua mentalità estremista non è per nulla cambiata. Bougana non rinnega le violenze, i crimini contro l’umanità, le stragi, il jihad: si sente solo in colpa di avere trascinato moglie e figli in guerra. Comprensibile, ma quali garanzie ci sono che non tenterà di concludere in Europa ciò che ha cominciato in Siria?

«VOGLIO TORNARE A LONDRA MA NON SONO PENTITA»

Il problema, appunto, non è solo italiano. Hanno fatto scalpore a Londra le parole di Shamima Begum, ragazza di 19 anni incinta al nono mese, che dopo aver passato con lo Stato islamico quattro anni, ora ha chiesto dalle colonne del Times di tornare nel Regno Unito. La ragazza musulmana è scappata a 15 anni per sposare un terrorista e combattere il jihad in Siria: «L’Isis era opprimente e corrotto, ma non sono pentita di quello che ho fatto. Le teste mozzate non mi facevano impressione», dichiara.

In tanti hanno implorato il governo di fare di tutto per riportarla a casa, ma Londra non sembra averne l’intenzione. La famiglia di Shamima non ha ancora parlato. Se anche tornasse, dovrebbe scontare almeno dieci anni di carcere e il figlio le sarebbe tolto. Ma soprattutto, sottolinea Repubblica, «Londra ha una linea durissima sui foreign fighters di ritorno, ha dichiarato più volte che non li rivuole indietro e sinora ha respinto anche i loro bambini».

DERADICALIZZARE È MOLTO DIFFICILE

Il problema di che cosa fare dei foreign fighters è enorme e di difficile risoluzione. In tanti sostengono la necessità di accoglierli di nuovo e di inserirli in programmi di deradicalizzazione. La Francia è il paese che più si è impegnato in questo senso: già il governo Hollande, nel 2014, fece nascere i primi centri per la prevenzione e la deradicalizzazione. Purtroppo, per ammissione di una commissione del Senato ad hoc incaricata di valutare questo esperimento, «è stato un vero fallimento». In alcuni casi, infatti, i soggetti “curati” sono poi partiti per la Siria.

«I JIHADISTI SI CONSIDERANO DEI CREDENTI»

Come dichiarato in un’intervista di due anni fa dal filosofo Alain de Benoist, la stessa idea di deradicalizzare questi foreign fighters denota un problema tutto occidentale:

«[Il governo francese] vuole far credere alla gente che la radicalizzazione sia una specie di malattia dello spirito, che bisogna curare come tale. Così ci si occupa dei sintomi e non delle cause. Anche l’Unione Sovietica internava i dissidenti negli ospedali psichiatrici. A cosa serve fare corsi di convivenza, dialogo, valori repubblicani a chi vuole decapitare il suo prossimo? Il problema è il senso della vita. Noi abbiamo perso di vista la dimensione antropologica del religioso. La nostra epoca si rifiuta di ammettere che i jihadisti si considerano dei credenti e, individuando nella morte la peggiore di tutte le cose, non capiscono come possano uccidere coloro che considerano i loro nemici. Come ha scritto di recente Pierre-André Taguieff, “per i jihadisti morire come un martire dona pieno senso alla vita. È questo che l’Occidente edonista non riesce più a comprendere. Davanti alle forti convinzioni religiose dei jihadisti, i ‘valori’ universali secolarizzati non servono a niente. Nessuno è pronto a morire per la laicità!”».

@LeoneGrotti

Foto Ansa

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.